L’ultimo giocattolino di Michael Gondry piace, piace troppo, deve piacere per forza. E’ il campionario del buon cinephile, quello con la valigetta dei trucchi vintage assolutamente garantiti, quel vintage da sindrome color seppia; si considera il talento di Gondry liberato dalle minacce finto-intelligenti di Charlie Kauffmann, sceneggiatore di Eternal Sunshine of a spotless mind, quando in realtà ciò che funzionava nel sodalizio era la frizione tra due mondi inconciliabili, ovvero loro malgrado quello che stava nel mezzo. Gondry non è troppo differente da Kauffmann, sciorina la solita insopportabile intelligenza, trascina un’apologo laico-moralista sui tempi sfalsati di un rapporto, nella cronometria sin troppo leccata di un finto surrealismo senza lo sperma di Svankmajer. Ecco, a Gondry manca lo sperma, quel liquido seminale che nel cinema d’animazione è vitalità del tratto, carnalità degli oggetti e oscenità brulicante della mutazione. In questo teatrino dell’ovvio l’aspetto più irritante è il cinema come magia, la retorica dello specchio, una slitta per il senso piuttosto che lo slittamento, inconscio e metacinema come concetti che qualsiasi pessimo reality potrebbe risucchiare in un buco nero terrifico. Indie-eye lancia una nuova (non) sezione; R-esistenze, più che altro esistenze. Me ne vengono in mente due che superano l’insostenibile romanticismo di Gondry. Goodbye Dragon Inn, il pen’ultimo film di Tsai ming Liang, storia di (un) cinema come storia di fantasmi e uno dei sorprendenti episodi di Masters Of Horror filmati da John Carpenter, Cigarette Burns, quell’interferenza dell’immagine che è buco di antimateria sullo schermo.
Una bruciatura.