“…it feels like we never had a chance. Don’t look me in the eye”
(D. Bowie – “Something in the air”)
Che il tempo e l’organizzazione della memoria dentro e fuori da esso, rappresentino i margini retorici entro cui si organizza il cronografo narrativo del cinema Noir americano, non è un alchimia segreta neanche per le produzioni più seriali. Più raro un uso consapevole e (in)cosciente dei vortici e dei labirinti infestati di specchi, nello sviluppo del cinema nero contemporaneo. Romeo is bleeding di Peter Medak, è un piccolo miracolo sulla metastasi mnemonica di una macchina narrativa che troppo spesso e a sproposito viene segnata con le stigmate del post-modernism. Sarebbe interessante costituire una memoria (im)possibile del cinema nero anglo-americano partendo da questa traccia e procedendo per salti, all’indietro o in avanti, per stabilire di volta in volta quanto possa essere labile la separazione tra “classico” e “moderno” nella colonizzazione un po’ bastarda che il Noir si è conquistato all’interno della parabola del cinema narrativo americano. Si potrebbero, per convenienza, delimitare dei confini, individuare delle influenze e stabilire paternità, marchi, luci ed ombre di appartenenza; focalizzare il genere e i suoi generici tic(s). Tra le tendenze più stimolanti c’è l’ipotesi che il Noir non esista, che sia un parametro apocrifo, non come doppio imperfetto e deformato di un genere specifico, ma come triplo, quadruplo, lente potenziale di più scuole, occhi, maestranze, letterature. Ripartiamo dai Tic(s), che sono i resti generi(ci) di codici piu o meno conosciuti e allo stesso tempo di stati comportamentali ai limiti con l’autismo. Gary Oldman del già evocato film di Medak, Bill Pullmann sulle corsie dell’anello “stradale” creato dalla sconnessione dei suoi ricordi nel Lynch di Lost Highway, e la ripetizione di “raccordi” in Memento, generata dalla cancellazione, traccia per traccia, gesto per gesto, di ricordi, o tic(s) “neri”.
Testa o memoria che cancella il “diritto” alla vertigine del puzzle in costruzione.
Già per registi come Roeg , Boorman, Ulmer, Argento (una lista a-cronologica sghemba e infinita, se fosse possibile) il pezzo mancante è il trucco o l’inganno preferito. Non perché venga sottratto come in un gioco di prestigio ma perché non esiste, è de-realizzato completamente dalla possibilità di essere traccia di qualcosa. Le tracce di una cartografia in fieri, realizzata dagli strumenti fotografici di un satellite non hanno possibilità di relazione gerarchica con un tassello sgranato dello stesso patchwork. Eppure lo sport critico preferito, soprattutto di fronte a un genere “forte” (per un equivoco storico) come il Noir, è la caccia al catalogo di citazioni, o il tentativo di decriptaggio dei tic(s) , che in quanto tali, in realtà impediscono un organizzazione coerente. Memento è il tentativo disperato di inserire un imperativo autoritario, nell’organizzazione del tempo, contro i tic e l’incoerenza dei ricordi, mediante la cancellazione, o forse il diritto ad utilizzarla.
scary Monsters, super creeps, keep me running, running scared
(D Bowie – “scary monsters”)
La partitura organizzata da Memento induce al montaggio attivo da parte dello spettatore e allo stesso tempo si costituisce sulla riconoscibilità e “presenza” del meccanismo che la genera. Lo sforzo di riconnettere il leit motiv, se da una parte è un invito alla libertà associativa , nasconde un movimento opposto e autoritario, che è quello di una riconnessione veramente possibile, partendo dal materiale dato. In realtà il segno vero e proprio di vertigine risiede nell’atto di cancellazione che ad ogni traccia recuperata avanza come un cancro prossimo e pericoloso per la nitidezza dell’immagine. La ripetizione è la sezione ritmica dominante, vicino (in suono) allo “sfruttamento” esasperato degli archi in funzione ritmica fatta da Herrmann nei suoi score più noti.
Herrmann ancora, per biforcare un po’ la nostra lettura, introduce delle caratteristiche quasi figurative, a spirale (vertigo, marnie) che hanno il compito di dilatare la cronometria della ripetizione.
Memento segue questa “regola” di contrappunto moderno: un sistema narrativo minimale come struttura “solida” e “percettiva”, e una linea più libera, formata da una concentriticità progressivamente fuori raggio, fatta di sinusoidi cancellate.
Time – He flexes like a whore
(D Bowie – “time”)
La pratica mnemonica, e quanto di “generico” possa sopravvivere agli sforzi di detection operati da Guy Pearce è l’atto stesso del catalogare tracce, segni, immagini che perdono in pochi istanti il loro referente. E’ il tempo che implode e flette su se stesso, collassando sul suo funzionamento, riducendo a simulacri suoni e immagini.
I said that time may change me But I can’t trace time
(D Bowie – “changes”)
E’ un rinascere e un vivere costantemente fuori “luogo”, nel tentativo di riconnettere un impercettibile slittamento nella sincronia di luoghi, ricordi, ripetizioni. Il dramma di lasciare tracce nel tempo, non equivale alla possibilità di tracciarlo secondo un vettore. La scelta dell’omissione come pratica volontaria, come si accennava prima, è la cesura violentissima che Chris Nolan introduce nel suo film. Rispetto alle continue manipolazioni contro la soggettiva di Guy Pearce, l’omissione è una riassunzione libera della propria con il rischio e il diritto alla menzogna. La libertà raggiunta è apparente, è solo lo sforzo di sopravvivere facendo un buco nel tempo; consapevolezza della propria morte.
And I’m gone, through a crack in the past Like a dead man walking
(D. Bowie “dead man walking”)
Bowie coincide quasi con il nero, e i titoli di coda, lo scrolling definitivo dei segni e della “parola” per qualsiasi film; il momento di riconnessione per lo spettatore che in pieno blackout ri-costruisce e ri-connette, come i neri “disturbati” dal pulviscolo Resneisiano in “L’amour a mort” o più recentemente la neve che copre il suo ultimo Coeurs (Cuori)
Il songwriting Bowiano si appropria, con suono e immagine, di questo viaggio verso la morte e il ripiegamento del tempo. La scelta di un brano come Something in the air ha il segno delle paure che perforano tutto “Hours”, album posseduto da una retorica irresistibile e narcolettica; l’ossessione costante di riallocare il passato in un istante e in un suono “nostalgico” quindi immobile e allo stesso tempo possibile, contaminato, parassitario su tutto lo scibile pop. Non è interessante la poliedricità camaleontica di Bowieattore, non lo è mai stata a mio avviso, non tanto (o per lo meno) quanto il bowieautore delle apparizioni cinematografiche, strano attrattore di biografie vere, presunte, alluse, clonate.
But now We’re today’s scrambled creatures, locked in tomorrow’s double feature
(D. Bowie – “we’re the dead”)
Autore che si de-materializza davvero come uno zombie intrappolato in un loop temporale, un non morto, un vampiro con il terrore di invecchiare (the hunger), un detective che ha perso l’oggetto della sua detection e che si manifesta nel feedback di un videocircuito chiuso (Fire walk with me), la distanza da se stesso (Cristiane f), un essere fuori luogo con capacità psicometriche (The men who fell the earth), un frammento delle sue doppie, triple biografie (Merry xmas mr lawrence)
I’m sinking in the quicksand of my thought And I ain’t got the power anymore
(D Bowie “quicksand”)
Memento, è , per la paura e il desiderio di chi scrive, anche un film sulla musica e l’arte di David Bowie, un colpo violento allo stomaco, una sopresa allusa per tutta la sua durata e realizzata da una voce e un suono – icona riconoscibili. Viaggio verso la libertà della morte; libertà di scegliere l’oblio e riallocazione di tutte le storie d’amore che perdono fiducia.
Baby, I’ve been breaking glass In your room again
(D Bowie – “breaking glass”)