martedì, Dicembre 3, 2024

Cuore e Anima – Ian Curtis e i Joy Division # 1

Nel 2007 si è celebrato il trentennale del famigerato anno zero del punk. La ricorrenza ha fornito il pretesto per una serie di operazioni antologiche, volte a ripercorrere i passi di quanti, in quei giorni, davano inizio alla loro avventura musicale. Tra quelli che hanno maggiormente beneficiato dell’anniversario si distinguono sicuramente i mancuniani Joy Division. A testimonianza di rinnovato interesse, numerosi eventi hanno coinvolto il nome della formazione britannica nel corso della stagione autunnale: da prima la presentazione di un documentario omonimo nel circuito dei festival, quindi l’uscita nelle sale dell’attesissima pellicola di Anton Corbijn “Control”, infine la ristampa ad opera della Rhino Records degli album Unknown Pleasures, Closer e Still.
Per decenni oggetto di culto sotterraneo, i Joy Division stanno finalmente conoscendo una meritata, seppur tardiva, esposizione al grande pubblico. Del resto stiamo parlando di una fra le più rilevanti formazione post-punk di fine anni ‘70, la cui influenza non solo avrebbe segnato in maniera sostanziale un intero filone musicale – quella Cold Wave poi ribattezzata Gothic con l’avvento di Bauhaus, Birthday Party, Killing Joke, Sisters of Mercy… – ma si sarebbe estesa ben oltre gli angusti limiti temporali della nuova onda.
Il basso profondo di Hook, i vuoti strategici creati della chitarra di Sumner, la batteria ricercatamente monotona di Morris, il tono sofferto e la poetica apocalittica di Curtis sono archetipi sonori rintracciabili in gran parte del rock alternativo fino ad oggi prodotto. A partire dai dominatori del New Pop anni ’80 Echo & the Bunnymen, U2, Psychedelic Furs, passando per gli eroi underground Pixies, fino ai rappresentanti dello spleen anni ’90 Nirvana e Radiohead, tutti hanno in qualche modo risentito della formula sonora forgiata dai quattro di Manchester trenta anni or sono.

Ma nel lontano 1977, Ian Curtis (voce), Bernard Sumner (chitarra, sintetizzatore), Peter Hook (basso) e Stephen Morris (batteria) sono ancora quattro ventenni, in tutto e per tutto simili alla maggioranza dei loro coetanei. A livello sociale possiamo collocarli nella fascia in cui gli esponenti dell’alta classe operaia si fondono con i rappresentanti della bassa borghesia impiegatizia. I loro gusti musicali sono gli stessi dei tanti giovani che sfuggono al grigiore dei settanta inglesi rifugiandosi nel glamour incarnato dai propri eroi romantici: Lou Reed, David Bowie, i Doors, i Velvet Underground, gli Stooges di Iggy Pop. La realtà, d’altra parte, non offre certo prospettive entusiasmanti. Il governo laburista sembra incapace di arrestare la recessione economica che attanaglia il paese e Manchester, un tempo capitale dell’industria inglese, ne vive appieno la crisi. Il malcontento è ovunque e fornisce terreno fertile per la propaganda neofascista del National Front. In capo a un paio d’anni i conservatori guidati da Margaret Thatcher avrebbero saldamente preso in mano le redini del Regno Unito, dando inizio a un decennio di liberismo sfrenato, privatizzazioni selvagge e licenziamenti di massa. I futuri membri dei Joy Division tirano avanti accontentanosi dei loro modesti impieghi statali, una carriera musicale è un’ipotesi che non può venir presa in considerazione nemmeno da lontano. Manchester non è certo l’America e quando – come nel caso di Curtis – si ha già una famiglia sulle spalle non c’è tempo per i sogni di gloria.

In questo contesto il passaggio dei Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall è come un fulmine a ciel sereno. La palese incompetenza tecnica di Rotten e compagni fornisce all’intellighentija mancuniana una speranza nel domani (paradossale, per un gruppo che faceva del “no future” il proprio manifesto!). I Pistols non sono rockstar irraggiungibili ma ragazzi qualunque, eppure si dimostrano capaci di salire su di un palco ed entusiasmare il pubblico. Non deve passare molto tempo prima che i nostri decidano di formare a loro volta un gruppo musicale, cominciando a proporre materiale originale. Il grezzo punk rock delle origini, documentato sul demo autoprodotto “An Ideal For Living”, è solo il primo passo in un percorso evolutivo che porterà alla luce qualcosa di assolutamente personale. Accentuando le componenti ossessive del ritmo, sottraendo alla chitarra il ruolo di strumento portante e trascinando il basso in primo piano, i quattro otterranno un suono punk profondamente urbano, radicato nelle atmosfere post-industriali della loro città natale. Una musica austera eppure trascinante, ballabile in molti casi.
L’impalcatura sonora su cui i Joy Division edificheranno il proprio stile poggia anzitutto sui pilastri berlinesi di David Bowie e Iggy Pop. L’algido futurismo di Low e The Idiot sarà il punto di partenza nel processo di emancipazione dal punk rock puro e semplice. Proseguendo a ritroso nel tempo, possiamo notare come le influenze della terra di Germania siano state significative per la maturazione musicale dei quattro. Dal krautrock di Can e Neu! la formazione di Manchester erediterà il gusto per composizioni acide, dilatate ed ipnotiche. Lo stile percussivo elaborato dai batteristi Jaki Libezeit e Klaus Dinger – il cosiddetto motorik beat – dall’andatura meccanica, quasi inumana, basato su variazioni minime, verrà recepito da Stephen Morris che ne farà il suo punto di forza. L’elettronica dei Kraftwerk sarà invece decisiva nell’avvicinare Bernard Sumner ai sintetizzatori. Fra le opere dei loro contemporanei grande importanza rivestiranno The Modern Dance, vademecum di garage industriale degli americani Pere Ubu, e Join Hands, capolavoro di oscura bellezza dei londinesi Siouxsie and the Banshees.

Una menzione a parte meritano la poetica e il personaggio di Ian Curtis.
Poeta tormentato, appassionato di Dostoevskij, T.S.Eliot, Ballard, Burroghs, il giovane leader dimostrerà sempre un morboso interesse nei confronti della sofferenza umana. Le sue ossessioni lo porteranno anche a flirtare con argomenti controversi: il nome Joy Division, ad esempio, fa riferimento all’appellativo con cui i gerarchi nazisti definivano le donne ebree utilizzate a scopi sessuali nei campi di concentramento. Sebbene sia spesso complicato individuare con precisione gli argomenti trattati nei suoi testi – Curtis scriveva per analogie interiori più che seguire un senso narrativo compiuto – le immagini che ritornano con maggiore frequenza sono quelle di morte, dolore, colpa, fallimento, destini segnati. A posteriori, possiamo renderci conto di come queste scelte traessero ispirazione anche da vicende personali. Il senso di colpa dovuto al fallimento del proprio matrimonio farà leva sull’insicurezza psicologica del cantante, spingendolo verso un’acuta depressione. L’insorgere dell’epilessia e l’uso dei farmaci assunti per tenere la malattia sotto controllo non faranno che peggiorare il suo equilibrio psichico. I celebri balletti spastici improvvisati sul palco evidenziano la volontà di mettere in scena la patologia, nel tentativo di esorcizzarla. Considerato che il verificarsi di una crisi durante un concerto non era un evento raro, diventa oltremodo complicato tracciare un confine preciso fra realtà e finzione. La tragica conclusione della vicenda di Curtis, morto suicida a soli 23 anni, ha sancito la sincerità delle sue parole, proiettando definitivamente il personaggio nell’Olimpo del Rock. Scomparso non per un eccessivo desiderio di vita (come era stato per Hendrix, la Joplin o Morrison, stroncati dai loro stessi eccessi) ma per il rifiuto della vita stessa, il poeta di Manchester diventerà un modello in cui negli anni si riconosceranno schiere di adolescenti sfiduciati. Il magnetismo della sua figura rimarrà insuperato, almeno fino a quando il leader dei Nirvana Kurt Cobain – personaggio per molti aspetti simile a Curtis – ne ripercorrerà le orme, oltre un decennio più tardi. (continua…..)

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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