giovedì, Novembre 14, 2024

Beach House – Thank Your Lucky Stars: la recensione

A distanza di cinquanta giorni circa dall’ultima pubblicazione, il duo Victoria LegrandAlex Scally rilascia il sesto album in studio a firma Beach House, rivelando un’abbondanza creativa che sembrava essere mancata nei tre anni di distanza che avevano preceduto l’uscita di Depression Cherry. Thank Your Lucky Stars ha innanzi tutto il merito di non essere un mero seguito del suo predecessore né tanto meno una collezione di scarti, b sides oppure versioni alternative. A tanta generosità non corrisponde altrettanta ispirazione e freschezza.

Incoronati alfieri del new dream-pop, i Beach House danno l’impressione di vivere di rendita di ciò che è stato indubbiamente il loro miglior lavoro (Bloom), lasciando che troppi cliché fagocitino le idee compositive di partenza. Tastiere, drum machine e organi costituiscono la grande ossatura di partenza sotto il profilo timbrico, autunni piovosi e foto sbiadite recitano lo stesso ruolo sotto quello iconografico. Tutto molto chiaro, se non fosse che a mancare in questo caso sono proprio le fondamenta, ossia la scrittura e l’interpretazione. I brani si snodano sempre con un essenziale beat di partenza di batteria elettronica, tastiere che alternano tappeti ed arpeggi, la voce della Legrand in deciso primo piano, qualche chitarra elettrica sparsa qua e là.

I territori sono quelli già frequentati da Nico, Cocteau Twins, Mazzy Star, Stereolab (in parte, All Your Yeahs è un omaggio più che esplicito) e Daughter (per rimanere più vicini ai giorni nostri), ma i modelli rimangono inarrivabili.
La Legrand non possiede il magnetismo e il connubio di spettralità e sensualità della musa warholiana né le strabilianti doti vocali di Elizabeth Fraser né tantomeno la grazia interpretativa di Hope Sandoval, puntando tutto su un cantato a mezza voce dalla limitata estensione, che carico di effetti com’è, lascia trapelare più di un dubbio anche sulle effettive doti tecniche: e le melodie, di certo non memorabili, non aiutano.

Scally strumentalmente tende a rimanere a metà strada sulla soluzione d’atmosfera e la ricerca della canzone iper-cesellata, obiettivo però irraggiungibile se non vi è netta distinzione tra strofa e ritornello e soprattutto se non si scrive una linea melodica dall’impatto immediato: e alla fine il risultato non è né carne né pesce.

Il disco dunque scivola via tra ballate dalla struttura meccanica e iterativa, dall’approccio via via accattivante come nel caso di Majorette e One Thing; decadente ma languido nell’episodio She’s So Lovely, dove emerge un riuscito dialogo tra elettrica e organetto, magniloquente per quando riguarda la quasi badalamentiana Elegy to the Void, sospeso quando è il turno di Rough Song) ed infine suadente con la conclusiva Somewhere Tonight, decisamente il pezzo migliore, una ballad in ¾ da spiaggia anni ’50, quasi una rivisitazione oscura di Scandalo al sole. In definitiva, un album curatissimo nel suono, ad eccezione delle soluzioni di beat, sempre approssimate e tirate via, ma talmente ambizioso nella sua ricerca della purezza assoluta da lasciare indifferenti, con l’aggravante di andare alla ricerca di un pubblico che desidera solamente esser consolato. Pathos e sofferenza abitano decisamente da un’altra parte, qui sembrano più che altro rimasti nella penna.

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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