La musica di Ilario Rosso “rotola tra la pista e il bar“, la puoi trovare in una vecchia bettola dove si tira a far veglia con una fisarmonica, due chitarre acustiche e qualche gottino. E anche quando si affida alla struttura di un pop più arrangiato (casi popolari) non perde di vista l’orizzonte popolare, quello che gli consente di raccontare il deambulare picaresco di una combriccola di disperati. Ma il racconto che Rosso predilige è quello popolaresco, un folk dell’anima che trova risonanza non solo nella strumentazione che sostiene le sue filastrocche, sostanzialmente acustica, ma sopratutto nei generi che predilige, a metà tra i mondi della canzone tradizionale, il tango sgangherato e il waltzer delle balere provinciali.
Coadiuvato dal basso di Sergio Maiandi, dalla fisarmonica e dal violoncello di Gabriele Montanaro e dalla batteria swingata di Valter Pratesi, “secondo me i buoni” è una raccolta di canzoni sulla diversità e la solitudine raccontate senza alcuna retorica, ma con il disincantato cinismo di un cantastorie che scrive dei personaggi che incontra, confondendo vita e musica senza soluzione di continuità.
Come in altri lavori del cantautore Torinese amici e ospiti arricchiscono i brani con improvvisate “famigliari”, un po’ come se si trovassero a passare dal locale dove Ilario suona, e allora oltre agli ottoni di Enrico Allavena nella “Ballata degli ultimi ubriaconi“, brano dall’incedere bislacco e cabarettistico, si alternano l’opinione di Jacopo (in arte Dargen) D’Amico posizionata in coda a “la canzone cafona” dove ci spiega il concetto di “cafonologia” e racconta il disco come lo avremmo voluto raccontare noi, definendolo “pop-olare” e di genere folk-stazionario, ovviamente giocando con le parole tra senso e non-senso come riesce solo a lui; e ancora c’è la voce sussurrata e suggestivamente erotica di Carlotta Sillano in “Galeotto e Libertà“, brano accompagnato dal solo piano di Montanaro e che nella sua profonda malinconia, ci dice una volta di più quale sia lo stile di Rosso, quello di chi non si lascia mai andare all’autocommiserazione, ma al contrario fa della feroce ironia il carburante per una poeticità non allineata. Del resto cosa dire di una canzone dedicata a “i morti“, quelli che sono tutti buoni perchè non hanno tempo di rompere i coglioni se non che il buon Rosso non ama la retorica e le mezze misure? Chiude l’album la bellissima “rap_porto“, bonus track sostenuta sul flebile filo di un violino appena sfiorato e l’arpeggio ossessivo dell’acustica, qui Ilario in fondo ci dice che i buoni, se ci sono, sono quelli esclusi dallo sguardo di Dio.