È uscito a giugno per la salentina Dodicilune l’esordio sulla lunga distanza dei veneti Leptons, formazione che dopo svariati anni di gestazione mette insieme questo Between myth and absence, album che in un certo senso riassume tutta la filosofia compositiva di Lorenzo Monni, musicista di origini cagliaritane e stanziato a Padova, voce, chitarra e produzione della band, laureato in Sound and Music Engineering e già nel contesto discografico indipendente grazie alla Lizard Records e con una serie di opere “non riconciliate” che tendono a delineare, come dice lo stesso Monni, un’idea di musica totale che il nostro non ama particolarmente confondere con i luoghi comuni che tendono alla definizione di “progressive”.
Noi siamo d’accordo con lui, perché Between myth and absence è certamente un lavoro atipico nel panorama italiano musicale, anche quello più contaminato e che ha scelto lo sconfinamento tra generi come modus operandi. Sin dall’opener Back to oblivion si individuano elementi che dagli intarsi pop di matrice beatlesiana arrivano fino ai Field Music dei fratelli Brewis, band troppo spesso associata ad una rinascita fuori tempo massimo di alcune istanze “brit”, ma fortemente influenzata dalle strategie oblique di Eno e da tutta quella musica tra pop e jazz filtrata sicuramente da certe esperienze britanniche degli anni settanta, rilette alla luce di suoni più aspri e angolari, come quelli no wave della seconda metà dello stesso decennio.
L’attenzione alle voci di Monni e soci è molto vicina ai contasti ricercati dalla band di Sunderland, ma si complica lungo il percorso individuando elementi condivisi con altre esperienze sonore in un ampio raggio di influenze incluse, giusto per stabilire due estremi, tra Robert Wyatt e le ultime prove di Steven Wilson.
Le suggestioni sono quindi numerose e procedono dall’avant jazz strumentale di Absence II, passando per la scuola di Canterbury evocata in The King inside of me, il crocevia tra folk e armonie rinascimentali di In My hutch, e la sintesi pop di Silent, vicina allo stesso tempo agli ultimi King Crimson più Belew che Fripp, al Peter Hammill tra settanta e ottanta ma anche ad una versione più calda del Donald Fagen di Nightfly.
Tutto questo senza rischiare eclettismo fine a se stesso, ma con un’idea centralissima di suono che ci consegna uno degli album più eccentrici e allo stesso tempo solidi prodotti in Italia negli ultimi anni.