Sei dischi in dieci anni di carriera sono un bottino niente male, a maggior ragione se raggiunti partendo da una vocazione decisamente sperimentale per il contesto indie dal quale il duo di San Francisco proviene. Tra risultati decisamente di livello, fra i quali almeno i primi due album, e altri francamente noiosi (fra cui No Color, recensito qui su Indie-Eye), Individ si posiziona a metà strada, fornendo spunti di maggior interesse rispetto al recente passato ma difettando talvolta di un’impronta personale che il gruppo attualmente esprime solo a tratti, quasi come se si trovasse a vivere di rendita del suo brillante passato.
Il disco inasprisce parecchio la vena acustica dei precedenti e vira decisamente su cavalcate elettriche ricche di crunch alle quali il brillante drumming di Kroeger apporta un tiro notevole (vedi la doppietta iniziale): ma il contrasto con le melodie sospese a mezz’aria, di vago sapore Fleet Foxes, non è sempre azzeccato e contribuisce più a disperdere il brano che non a consolidarlo. Naturale, allora, è che i pezzi più interessanti siano quelli in cui i musicisti si lasciano liberi, l’uno, di abbandonarsi a spericolati arpeggi, che costituiscono da sempre il suo marchio di fabbrica e, l’altro, di intervenire ritmicamente con spostamenti di accenti ed incastri ritmici sempre funzionali e mai autoreferenzialmente virtuosistici: in questo senso il binomio centrale di Darkness e Goodbyes and Endings è assolutamente riuscito, la successiva Retriever un po’ meno.
A sorpresa, c’è anche spazio per un inedito intermezzo lento e marziale (Bastards), al quale segue una liberatoria sfuriata finale, che vede ospite Brigid Dawson dei Thee Oh Sees. Il bilancio è dunque un disco che si spartisce equamente luci ed ombre, sporco e patinato allo stesso tempo, nemmeno sgradevole, in fin dei conti, ma nel quale, pur non mancando idee intelligenti e notevole perizia tecnica, si fatica a trovare davvero un’autentica urgenza espressiva.