Todd Haynes
Usa 2007
Todd Haynes doveva per forza arrivare alla formulazione di I’m not there come luogo dell’invenzione per un non genere; la biografia impossibile non è estranea al suo cinema sin dagli esordi con l’incredibile Superstar, percorso nel dolore dell’anoressia dentro Karen Carpenter, de-costruita attraverso gli scarti, i vuoti, le fratture, le discontinuità; aporie di una pop singer che prendevano nuova forma in un set fatto di oggetti, reperti, stratificazione di materiali e documenti, testi e rumori dal repertorio dei Carpenters e un cast fatto esclusivamente di Barbie(s). Poison arrivava a sfiorare il fantasma di Jean Genet attraverso un meccanismo episodico costituito da frammenti, ricordi personali, l’invenzione di un B movie di fantascienza sul contagio e alcuni riferimenti biografici sottoposti alla deriva della disseminazione. Velvet Goldmine, pur ricostituendo un’apparente coesione narrativa, faceva lo stesso smembrando i corpi letterari, iconici, musicali di David Bowie attraverso la visione prismatica di un’era. L’unico ambito dove Haynes ha esercitato apparentemente un rigore filologico, era un non luogo, quello del simulacro Sirkiano in Far From Heaven, dove la perfezione formale, quasi senza scampo, permetteva al regista americano un rovesciamento di magnifiche ossessioni all’interno di un simulacro riprodotto come all’interno di una lanterna magica. I sei volti di Bob Dylan attraversano temporalizzazioni incerte, come in una diffrazione quantistica hanno un’influenza reciproca senza l’autorità della visione oggettiva della storia. La pre-cognizione della morte del menestrello ha un valore stratificato che ora è sogno, adesso emanazione di un immaginario, scheggia mnemonica, futuro anteriore. In questo senso i’m not there, nel suo dichiararsi un’immagine dell’assenza, è un terrificante film di fantascienza, anche nell’accezione che dischiude Julio Bressane nella sua splendida visione di Cleopatra, vista qui a Venezia 64. Una fantascienza dove il tempo della storia, l’uso dei materiali (sonori, letterari), la menzogna e l’invenzione, l’apertura di una prospettiva filosofica, vent’anni di cinema sperimentale, perception of light di Michael Snow sono sottoposti ad una stratificazione permeabile. L’aderenza quasi maniacale e impossibile con cui Haynes penetrava il dramma familiare di Karen Carpenter nel suo dissolversi, nel suo non esser più, seguiva un processo di iconizzazione astratta. I’m not there sperimenta la dissoluzione sul corpo del biopic come genere, risucchiando tutta una serie di visioni del simulacro da I Walk the line in giù, in una vertigine sensoriale, soggettiva, potentemente storica come un’ Histoire(s) du cinéma. Ed è la stessa colonna sonora, sovrapposta ad altri suoni, che gioca con l’ambiguità della ricostruzione, da Stephen Malkmus a Tom Verlaine c’è un tracciato emozionale che trasforma il tempo in una voragine; è una visione nomadica che ha attraversato più di un film qui a Venezia 64; dalla sovrimpressione di storia e biografia che si trasforma in auto-biografia (del cinema, di se stesso, del Portogallo) nell’ultimo commovente De Oliveira, fino al Django di Miike Takashi che con il Bob Dylan (?) di Haynes subisce il rischio della disseminazione deterritorializzando la sua persistenza. Noi non siamo qui.