Nell’apprestarmi a recensire il bel libro di Renzo Stefanel su Anima Latina – album di Lucio Battisti pubblicato alla fine del 1974, dal carattere decisamente sperimentale se confrontato con la precedente produzione dell’artista – non posso sottrarmi ad una doverosa confessione. Per anni ho odiato Battisti, senza mezzi termini. Ho odiato profondamente la tonalità della sua voce, i suoi riccetti bruni e il suo sorriso da bravo ragazzo, quelle progressioni di accordi sempliciotte che associavo ai chitarristi dilettanti e ai falò sulla spiaggia. Ho odiato i testi delle sue canzoni, che ritenevo retorici e melensi, emblematici di tutto il peggio che la tradizione melodica italiana potesse offrire. Figuriamoci quando ho realizzato che non era nemmeno lui a scriverli. La scoperta non ha fatto che accrescere il mio disprezzo nei confronti del personaggio. Nella concezione dura e pura del me adolescente un cantautore non poteva definirsi tale se non scriveva personalmente – e quindi, immaginavo, non sentiva sue – le parole che cantava. E in ogni caso di fronte ad un poeta come De Andrè, capace di sintetizzare in poche strofe concetti profondissimi ed universali, che cosa poteva mai rappresentarmi un Giulio Rapetti in arte Mogol? Le sue mi sembravano riflessioni da uomo comune. Riflessioni semplici per musiche semplici.
E proprio questo è il punto. Non ho cambiato opinione, però con la maturità mi sono reso conto che questa semplicità ha un suo valore intrinseco. Prendiamo La Canzone del Sole, tanto per andare sul classico: saranno tre accordi in croce ma vanno pur sempre a creare una gran bella melodia. Solo una bella melodia, niente di più, niente di meno. Ma perché negarsi il piacere dell’ascolto?
Allo stesso modo consideriamo l’ossessione di Mogol verso i rapporti uomo/donna, sviscerati attraverso innumerevoli resoconti di amori, tradimenti, abbandoni… Sono considerazioni da uomo comune queste, non certo poesie. Ma ciò significa, per l’appunto, che ognuno di noi può facilmente riconoscersi in esse e farle proprie. E chi ha detto che non possa essere un pregio?
È probabile che la mia iniziale idiosincrasia nei confronti della coppia artistica Battisti/Mogol si fosse sviluppata per saturazione. L’immagine di mia madre che suona Il Leone e La Gallina alla chitarra per farmi divertire è uno fra i miei più antichi ricordi d’infanzia. Lucio Battisti è certamente radicato nella memoria collettiva a livello ben più profondo rispetto a qualsiasi altro artista di musica leggera. Si può affermare che le sue canzoni, quantomeno le più celebri, siano conosciute praticamente da chiunque. Ed è per questa precisa ragione che potrebbero suonare scontate, che corrono il rischio di annoiare. Un po’ come accade ai classici dei Beatles. Ma se è certamente vero che chiunque sarebbe in grado di canticchiare Love me Do o She Loves You, tanto per continuare il paragone con i Fab Four – verso cui, per inciso, potrebbero valere tutte le critiche finora mosse a Battisti/Mogol – quanti avranno mai ascoltato davvero pezzi come Tomorrow Never Knows o Happyness is a Warm Gun?
Ed è qui che finalmente, dopo quelle che potranno anche apparire inutili divagazioni, arriviamo a parlare nello specifico dell’argomento di questo libro. Grande merito va a Stefanel, anzitutto per aver fatto sì che un tipico rappresentante dei conoscitori superficiali di Lucio Battisti, quale io sono, venisse a contatto con un album come Anima Latina. Tra queste pagine, mentre a poco a poco mi appassionavo alla narrazione, ho scoperto un artista inedito. Ciò naturalmente non basta ancora a fare del sottoscritto un fan del Lucio nazionale. Nondimeno, l’opportunità di conoscere ed analizzare un segmento di musica italiana per me nuovo e affascinante costituisce già di per sé una notevole gratificazione personale. Gli stimoli vanno cercati lontano dalle proprie sicurezze.
E Dunque. Renzo Stefanel ha di recente pubblicato per la No Reply un saggio sull’album più misconosciuto nell’intera produzione del Battisti anni ’70, quello che ha venduto meno di tutti gli altri, quello che non è mai arrivato al numero uno in classifica. L’analisi è svolta nell’ambito di una precisa operazione della casa editrice, volta a ripercorrere la genesi di alcune pietre miliari, viste come punti di svolta nella carriera degli artisti presi in esame. Ho usato il termine saggio, ma si tratta in effetti di un vero e proprio atto di amore verso l’opera. Stefanel, al contrario di me, è un Battistiano convinto della prima ora e il suo entusiasmo trasuda da ogni singola pagina. Con passione e meticolosità l’autore ci trasporta nel contesto da cui Anima Latina ha avuto origine tramite alcuni paragrafi introduttivi, ripercorrendo gli avvenimenti socio-politici di quegli anni ed evidenziando lo stato in cui versavano le classifiche dei dischi più venduti. Così, a poco a poco, vanno a delinearsi le ragioni delle scelte artistiche di Battisti: il desiderio di evolversi, di allontanarsi da quel genere melodico di cui era dominatore incontrastato, il rifiuto dell’immagine che il pubblico gli aveva cucito addosso e su cui nuove leve come Cocciante o Baglioni stavano costruendo il proprio successo. Viene spiegata la crescente fascinazione di Mogol verso il mondo e le tematiche Hippie, evidente in testi più eterei e libertari del solito, la sua preoccupazione circa le dicerie sul “Battisti fascista”, il tentativo di sconfessarle e di avvicinare un nuovo pubblico tramite i contatti con Re Nudo e con il Festival del Proletariato Giovanile.
Ogni singolo brano è minuziosamente preso in esame, ne vengono analizzate le soluzioni musicali e i significati delle parole che lo accompagnano sono sviscerati fin nel profondo. Si tracciano le linee guida di un album che risente profondamente di suggestioni tropicaliste, assimilate da Battisti durante il suo viaggio in Brasile con Mogol, ma in cui è evidente anche la vecchia passione di Lucio per la Black Music. Un album particolare, che segna inoltre un avvicinamento al Prog di formazioni come Il Volo, gruppo sotto contratto alla Numero Uno – etichetta fondata da Battisti e Mogol – e di cui numerosi membri presero parte alle registrazioni.
Ed è in effetti uno degli album più “suonati”, nell’ambito della discografia dell’artista, quello che ne emerge. Un album in cui Battisti stesso è più musicista che cantante, nel quale le strutture dei brani sono aperte, a tratti tendenti alla Jam session. Un album più di gruppo, in definitiva. Proprio per questo si rivelano essenziali le dettagliate interviste cui Stefanel ha sottoposto ogni singolo turnista. Vere e proprie colonne portanti della musica italiana come Massimo Luca, Bob Callero, Gianni Dall’Aglio, Claudio Maioli, Franco Loprevite, forniscono interessanti aneddoti sulle diverse fasi di lavorazione del disco. Tracciano un affresco illuminante circa il metodo con cui gli album venivano concepiti e registrati negli anni ’70, nonché su quale fosse la condizione e il ruolo del musicista “prezzolato” in questo processo. È divertente constatare come le versioni dei singoli siano spesso in contrasto fra loro. Tanto per dirne una, il mistero su chi abbia davvero suonato la batteria in Anima Latina (Dall’Aglio o Loprevite?) non viene risolto, nemmeno dopo numerose pagine.
Se c’è una critica da fare all’autore riguarda semmai il carattere un po’ pleonastico di determinati passaggi. Stralci di interviste ai musicisti, ai tecnici del suono, al giornalista Marengo, al fotografo della copertina Caesar Monti, vengono riutilizzati nell’analisi dei singoli brani, evidentemente per sottolineare questioni che Stefanel ritiene particolarmente importanti. Il loro effetto è però quello di creare una spiacevole sensazione di Dejà – vu, o meglio, Dejà – entendu. Inoltre, potrebbero apparire come ingenuità da fan sfegatato i tentativi di “nobilitare” il proprio beniamino tramite l’accostamento dello stesso ad artisti o pensatori particolarmente di culto. Così è ogni volta che Stefanel traccia paralleli fra Battisti e il Krautrock, o quando ipotizza una ispirazione Nietzschiana per alcuni testi di Mogol. Nel complesso, comunque, un libro davvero ben scritto, talmente pieno di entusiasmo che renderà difficile non entusiasmarsi a propria volta nel corso della lettura. E comunque, ora posso dirlo con cognizione di causa: Anima Latina è decisamente un bel disco.