domenica, Dicembre 22, 2024

David Bowie – Any Day Now Gli anni londinesi: 1947-1974 di Kevin Cann (Arcana, 2011)

È difficile godere di un godimento intenso quando ci si ferma a pensare che David Lynch fa i dischi invece dei film (e doppia i cartoni animati) mentre David Bowie, il cui ultimo album risale al 2003, si gode la casa in babbucce con Iman che gli prepara tisane profumate. Molto difficile. Per fortuna c’è chi, come Kevin Cann, si prende la briga di scavare nel passato e di imbastire uno di quegli oggetti “derivati”, per fan schiumanti e non, capaci di appagare qualsiasi malinconia. Cann è uno che conosce a menadito la vita di Mr Jones e che quando non riesce a ricostruire un viaggio all’estero del Nostro avvenuto nel 1965 alza il telefono e chiama manager incartapecoriti mangiandosi le unghie fino al polpastrello.

Il volume di cui parliamo, un bel mostro in formato coffee-table (ma con la copertina floscia) intriso di tutti i colori di una Londra che non c’è più da un pezzo, ricostruisce vita e carriera di David Jones dalla nascita all’uscita di Diamond Dogs, album orwelliano cui seguì un trasferimento negli Stati Uniti divenuto, strano ma vero per Bowie, definitivo. Almeno dal punto di vista burocratico. Any Day Now è quindi la biografia per dettagli maniacali e immagini orgasmiche del Bowie ascensionale degli esordi, dal nugolo di band che mise in piedi negli anni Sessanta al boom di Ziggy Stardust, fino agli albori del periodo a detta di molti (e del sottoscritto) più fecondo della sua carriera, quando la fame di Fame e i lustrini cedettero il passo a una ricerca musicale più drastica. Ben noto e significativo, in questo senso, il periodo berlinese che Arcana ha già omaggiato con un altro libro imperdibile.

L’aspetto più sorprendente del lavoro certosino di Kevin Cann riguarda il David (anzi, “Davie” come si faceva chiamare) dei primi anni di carriera, dal 1962 al 1966, e gli anni bowiani pre-Space Oddity. David era un giovanotto ipnotico e rampante, iperattivo e con l’istinto della provocazione. Un giovane musicista che, almeno in ambito inglese, stava già cominciando a farsi conoscere e ad attirare l’interesse dei giornalisti. L’immagine in quarta di copertina lo vede abbracciato alle sagome di cartone dei Beatles in versione Yellow Submarine, da lui usate in uno spettacolo teatrale di mimo (creato con Lindsay Kemp) del 1968. Ovviamente, al confronto con i Fab Four, il giovane Bowie era un signor nessuno. Ma cinque anni più tardi, in occasione del concerto che segnò la morte sul palco di Ziggy Stardust, Ringo Starr si sarebbe presentato, quasi deferente, nel back stage della stella del glam. Perché alla Beatlemania seguì, a distanza di un paio d’anni, un’accecante Bowiemania. E nel primo disco tutto a stelle e strisce di David, Young Americans, si ode la voce di Lennon.

Come suggerisce il titolo stesso del libro, estrapolato da un brano di Diamond Dogs, già negli anni della Swinging London David Robert Jones si comportava da Future Legend. Nel marzo del 1965, ad esempio, Davie Jones e i suoi Manish Boys crearono scompiglio al programma Gadzooks! della BBC2 per via dei capelli “troppo lunghi” portati dal cantante con la faccia da alieno e gli occhi diversi (causa cazzotto beccato tre anni prima). Per quanto inscenato ad arte allo scopo di promuovere il singolo I Pity the Fool, lo “scandalo capellone” mise in risalto il carisma sfrontato di David e il suo inevitabile destino di stella dello showbiz tutta genio, metamorfosi e ambigua, fiammeggiante vanità. Any Day Now è la cronistoria in forma di strenna di una stella nascente in cerca di classifica che brucia le band di accompagnamento come sigarette e ogni tanto si concede una parentesi non musicale. Per i fan del Bowie attore l’emozione più forte sarà leggere la genesi del cortometraggio dell’orrore – tra Wilde e Lovecraft – The Image, diretto nel 1967 da Michael Armstrong nel 1967, mentre gli appassionati delle sue vocette inquietanti – The Laughing Gnome docet – verranno a sapere che David, a quel tempo, ammirava lo stile stralunato di Anthony Newley, per il quale la chiusa perfetta per una canzone era una sana risata.

Il volume di Kevin Cann dispensa questo e altro, complice la partecipazione di Kenneth Pitt, manager di Bowie dal 1967 al 1970. L’interno di copertina è occupato da una labirintica ricostruzione di tutte le line-up cui prese parte il futuro Duca Bianco dal 1962 al 1974, e il libro equivale a uno tsunami di informazioni testuali e visuali che vanno dalla famiglia di David al suo certificato di nascita, dal suo interesse per il buddhismo al dettaglio della cover art di Ziggy Stardust che strizza l’occhio al film Arancia meccanica. Fino alle sue letture giovanili, tra cui spicca un classico della letteratura gay come Città di notte (1963) di John Rechy, quasi profetico nel descrivere il pellegrinaggio del protagonista nelle grandi metropoli americane. Eccone le prime righe nella traduzione di Pietro Ferrari (Marco Tropea editore, 1996):

In seguito avrei pensato all’America come un’unica, vasta Città della Notte che si estendeva rutilante da Times Square a Hollywood Boulevard, tra il lampeggiare dei juke-box e gemiti del rock and roll: l’America di notte che fonde le sue città di tenebra nella forma inconfondibile della solitudine.
Avrei ricordato Pershing Square e le palme apatiche. Central Park e le ombre febbrili. Cinematografi nelle rabbiose ore della mattina. E le strade ferite di Chicago… Cortili da film dell’orrore nel Quartiere Francese, sgargianti carri allegorici – clown, a bordo, che gettano perline di vetro – in una sfilata muta come la vita stessa… Avrei ricordato l’esplosione sensuale del rock and roll da juke-box che sbirciavano osceni, ammiccando multicolori lungo le strade d’America, pietre di una collana dozzinale che si allunga dalla Quarantaduesima fino a Market Street, a San Francisco…

 

 

Simone Buttazzi
Simone Buttazzi
Simone Buttazzi è nato a Bologna nel 1976 e ora vive in Germania. Si è laureato con una tesi sull’immagine-pulsione di Gilles Deleuze e le sue occorrenze cinematografiche. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dall’inglese e dal tedesco), redattore e consulente. In rete, oltre che su Indie-eye Network scrive per numerose testate di Cinema e Letteratura.

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