giovedì, Novembre 21, 2024

Radiohead, A Kid – di Gianfranco Franchi – (Arcana – 2009)

Incominciamo all’incontrario. Nel 1998 Brad Mehldau incide una cover pianistica di Exit Music (for a Film) in occasione dell’album Songs: The Art of the Trio, Volume 3. Ripeterà l’esperienza altre due volte, per Paranoid Android (eseguita live) e Everything in the Right Place, nel disco Anything Goes (2004). Nel frattempo anche il pianista Christopher O’Riley aveva messo alla prova la tenuta “classica” dei Radiohead, pubblicando un intero album di cover: True Love Waits: Christopher O’Riley Plays Radiohead (2003). Esperimento ribadito con successo due anni dopo con Hold Me to This: Christopher O’Riley Plays Radiohead. Mehldau e O’Riley hanno dimostrato che la musica dei Radiohead sopravvive anche senza la voce di Thom Yorke, il suo timbro da nenia, il suo tono da fine di mondo.

Ma può la musica dei Radiohead sopravvivere anche senza le parole di Thom? Se l’è chiesto Gianfranco Franchi, critico rock e letterario, scrittore, cavaliere della rete. La risposta è un agile volumetto di 448 pagine dal titolo Radiohead. A Kid. Testi commentati. La mole parla da sé. Ma c’è di più. C’è prima di tutto contenuto: Franchi passa al setaccio album per album, traccia per traccia, fino a In Rainbows (2007). Riporta i testi, li traduce e amalgama la disamina con citazioni da b-side, outtake, interviste del gruppo e sul gruppo e tesi estrapolate da altri testi di critica yorkiana. Per l’ampiezza, la passione e la meticolosità del lavoro, Franchi partorisce un gigante sulle spalle dei tanti topolini che finora si sono cimentati col gruppo oxoniense. Fuor di metafora, ci troviamo di fronte a un libro fondamentale per chi ama uno i Radiohead, due la critica rock. vA Kid avrebbe mandato in solluchero Lester Bangs buon’anima.

Il bello di questo volume è che oltre a fare la sua porca figura sullo scaffale, si lascia pure leggere volentieri. Franchi è un prosatore consumato dotato di uno stile, come suolsi dire, inconfondibile, e in questo frangente le pagine volano come quelle del Necronomicon nella Casa 2. Ma un momento: non è che l’autore prende i Radiohead come scusa per ciancicare a vanvera e spiattellarci i cacchi suoi? Sì, qua e là ci sono discrete iniezioni di cazzi sua, ma teniamo presente che questo non è un romanzo, bensì un saggio. Che i testi del Thom Yorke post-Ok Computer sono roba degna della fusione di Tristan Tzara e William Burroughs in un fanta-finale alternativo di Society. E che, mediamente, i libri sulla musica rock si esauriscono in una manciata di paginette stitiche – a patto di non prendere in esame leggende morte e sepolte o i soliti noti ultrasessantenni. Franchi gioca una carta rischiosa, e vince alternando la dedizione e il rigore bibliografico del saggio al piglio scanzonato di certi articoli della stampa specialistica. O di certa letteratura ibridata col linguaggio del web, che parla come mangia e ti prende per mano. Basti far caso a come “collega” un capitolo all’altro, una canzone all’altra, costruendo un flusso di lettura che non s’arena mai. 448 pagine? Una passeggiata.

radiohead_a_kidthChi è Thom Yorke, autore del novanta e passa per cento dei testi dei Radiohead? Franchi non ha dubbi in merito. Un folletto dispettoso, un intellettuale tutto casa e famiglia, un trickster con mille avatar. Un cazzone, anche. Un goliarda che “a volte scivola nei personalismi più gratuiti, senza rispettare il pubblico”. Come nel caso di A Punch Up at a Wedding, “odd song out” di Hail to the Thief (2003). Un’imbecillata imperdonabile. Soprattutto se si pensa al livello che i suoi testi raggiungono in The Bends (sia la canzone, sia l’album) o in brani struggenti come Let Down, Exit Music, Knives Out. O come Yorke riesce il più delle volte a pigiare con grazia il tasto delle proprie ossessioni, ad esempio la paura delle automobili che infesta pezzi famosi come Airbag o misconosciuti come Killer Cars e Stupid Car. Oppure, pensiamo a canzoni misteriose come Lurgee, Mixomatosis o, di nuovo, The Bends, che ibridano disturbi & malattie (vere & finte) con riferimenti alla cultura popolare inglese – un cocktail micidiale che avrebbe fatto sorridere George Harrison e i Monty Python al gran completo. Alla faccia di chi ha sempre bollato i Radiohead come menestrelli suicidelli.

I testi dei Radiohead si collocano al crocicchio tra letterarietà, cultura pop e randomness pura e semplice. Da bravo rabdomante delle parole, Franchi non fatica a rintracciare le fonti palesi dell’ispirazione di Yorke e compagni. Lewis Carroll, in primis. In seconda battuta Thomas Pynchon, Douglas Adams, il Kurt Vonnegut di Ghiaccio nove. Qualche esempio. L’acronimo W.A.S.T.E., noto a tutti coloro che hanno visitato almeno una volta il sito del gruppo, sta per We Await Silent Tristero’s Empire, citazione da L’incanto del Lotto 49 di Pynchon. Nella saga della Guida galattica per autostoppisti di Adams troviamo non solo un “androide paranoico” di nome Marvin, ma anche un re che parlando col proprio calcolatore di bordo sbotta: “OK, computer!” Nell’analisi dei testi hanno un certo peso anche la cultura tibetana tanto cara a Yorke – la “morning bell” si ode tra le vette dell’Himalaya – e un buon numero di reminiscenze bibliche. Del resto, il figlio di Thom si chiama Noah. Ogni cosa al suo posto.

Il libro si conclude con una batteria di fuochi d’artificio. Un epilogo in cui si analizzano due canzoni “skippate” in precedenza (al lettore la gioia di scoprire quali), la fondamentale sezione “Gli scaffali dei Radiohead” – con bibliografia, videografia, radiografia e filmografia, tutte ragionate ed empatiche – e gran finale con una pagina di keywords in ordine alfabetico. Tra i fitti ringraziamenti di fine libro si scorge una frase, “Io ho quel che ho donato“, che i fan del Franchi narratore conoscono bene.

E dopo cotante sviolinate, qualche nota dolente. In Climbing Up the Wall, l’autore si lascia andare a un excursus-tirata sulla legge Basaglia che non sta né in cielo né in terra; mentre è in procinto di chiudere il volume, parte con un’altra tirata – antiamericanista, stavolta – che va ben oltre gli orizzonti politici dello Yorke più incazzereccio; infine, una piccola svista a pagina 249 confonde la carriera solista di Ferry col periodo dei Roxy Music. Per espiare, Franchi dovrà ascoltare Avalon dieci volte di fila. E visto che è il coordinatore di lankelot.eu, la cosa non dovrebbe nemmeno dispiacergli.

Simone Buttazzi
Simone Buttazzi
Simone Buttazzi è nato a Bologna nel 1976 e ora vive in Germania. Si è laureato con una tesi sull’immagine-pulsione di Gilles Deleuze e le sue occorrenze cinematografiche. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dall’inglese e dal tedesco), redattore e consulente. In rete, oltre che su Indie-eye Network scrive per numerose testate di Cinema e Letteratura.

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