venerdì, Novembre 22, 2024

Sulla strada di Bob Dylan: memorie dal Greenwich Village di Suze Rotolo: la recensione

Sulla strada di Bob Dylan: memorie dal Greenwich Village è un piccolo grande caso editoriale. Per la prima volta arriva in Italia, a quasi dieci anni dalla pubblicazione americana e grazie alla determinazione di un editore appassionato, Caissa Italia, il memoir di Suze Rotolo, che per molti è solo la ragazza bionda che stringe un Dylan ventenne e infreddolito sulla copertina di “The Freewheelin’ Bob Dylan”, suo malgrado resa immortale da un disco, eterna icona dei Sessanta, condannata dall’immagine che cristallizza l’attimo a camminare per sempre accanto al suo giovane amore per le strade innevate di New York. C’è, in questo testo teso e trascinante, come un’ambiguità di fondo, un oggetto che sfugge: al centro vi è e non vi è Bob Dylan, che, per la Rotolo, è insieme, paradossalmente, «l’elefante nella stanza della mia vita» e una presenza leggera che fluttua parallela, che si dipana accanto, senza tuttavia cannibalizzare la memoria o sovrastare un’identità che non ha mai veramente rischiato di avvilirsi nella relazione tra genio creativo e musa passiva, né tantomeno di dissolversi nei fantasmi di una passione giovanile.

Il piano di lettura più semplice, chissà banale, è quello femminista: nelle memorie di Suze Rotolo, Bob Dylan è un episodio della vita, non l’episodio della vita. Chi si aspetta di gratificare i propri pruriti salottieri, resterà deluso. Quando la relazione tra lei e Bob (nel libro spesso affettuosamente chiamato ‘Bobby’) inizia a incrinarsi, c’entra anche una certa Joan Baez, ma Suze liquida la faccenda in modo elegantemente sbrigativo: «dopo Newport, le apparizioni professionali di Baez e Dylan in coppia furono elettrizzanti e subito si sparse la voce di una tresca tra loro. All’inizio erano solo pettegolezzi – poi, naturalmente, non più».

Joan Baez & Bob Dylan

La sua scrittura è impressionista e reticente, carica di un’ironica allusività, talvolta appena percettibile, ma non per questo meno acuta. Lo stile è rapido e asciutto, estremamente vivido come ci aspetteremmo dalla penna di una donna che, da scenografa improvvisata nei teatri newyorchesi, è poi diventata una grande artista visiva. Le sue verità su Bob Dylan, sul mistero della sua personalità riluttante e febbrile, eternamente in fuga di fronte dalla minaccia della stabilità e della sclerosi, sono fulminee: «aveva la sconcertante abilità di complicare l’ovvio e santificare il banale», «era divertente, stimolante, intenso; ed era ostinato», «non era lineare, era imprevedibile e agitato, ricettivo nei confronti di ciò che gli stava intorno», «era tutto un collezionare esperienze, un immergersi nel presente della vita», «raramente si piegava a bisogni o richieste provenienti dall’estero. Andava dove voleva andare anche quando per farlo doveva allontanarsi dal pubblico, dai fan, dagli amici e dalle amanti. Non rendeva la vita facile a nessuno, nemmeno a se stesso».

La grandezza di queste memorie risiede, dunque, non nella ‘smitizzazione’ del mito dylaniano, operazione di per sé facile, ma in un suo ‘addomesticamento’, nella naturalezza con cui un uomo, di cui si riconosce sempre l’eccezionalità artistica, viene raccontato, normalizzandone le debolezze e disinnescando sul nascere qualsiasi principio scandalistico, nel rifiuto di vivisezionare la sua personalità come fosse il cadavere di un prodigio donato alla scienza per ottenerne indietro chissà quale verità trascendente. Il suo complesso per essere un provinciale del Midwest, nato all’interno di una famiglia mediocre («i genitori di Bob eran tanto ordinari quanto lui non lo era. Sentiva di provenire da un luogo che era in totale dissonanza con il suo modo di essere»), l’abitudine di mentire, il gusto di imbellettare sempre e comunque la realtà (a cominciare dalla proprie origini), la slealtà nei confronti di amici e donne, l’insofferenza per le responsabilità, il lato meno nobile dell’uomo non viene taciuto, ma neppure enfatizzato e la bellezza di un libro del genere è anche in questo, nel suo posizionarsi esattamente a metà tra glorificazione e biasimo, divinizzazione ed esecrazione.

Suze Rotolo & Bob Dylan

Nella memoria si depositano e si radicano solo le verità sentimentali, quel che rimane nell’impressione e nell’emozione, anche quando i contorni sbiadiscono e i fatti sembrano un po’ esangui e confusi, al di là della cronaca e del dato reale. Il memoir della Rotolo è, allora, un testo brillante soprattutto per come risolve il confronto impari con la memoria che, insieme al tempo, dilegua: da una parte, decostruendo la sua vicenda privata nell’intersezione con il piano pubblico, dall’altra, costruendo l’epica di una storia collettiva, dalla saga della sua famiglia di immigrati italiani in America, dei genitori comunisti nell’epoca del maccartismo, intellettuali ed impegnati, ma poverissimi, alle divisioni sociali dei primi Sessanta – tra uomini e donne, bianchi e neri, allineati e iconoclasti – in cui la rigidità del decennio precedente sopravviveva pur nel clima di libertà e ricerca che stava avanzando, alla nascita dei movimenti di protesta, della coscienza femminista, degli Yippie e degli Hippie, la crisi cubana, l’assassinio di Kennedy, i cambiamenti all’interno del Village, dapprima emblema di accoglienza e inclusione, isola bohémienne di una New York ancora classista e a comparti stagni, poi luogo di competizione sfrenata tra velleitari. Leggere le memorie del Greenwich Village di Suze Rotolo è, così, come fare un corso accelerato di storia musicale e sociale dei Cinquanta e dei Sessanta e, non caso, quando l’opera è stato presentata la scorsa settimana al Salone del Libro di Torino, l’americanista Elena Lamberti ne ha sottolineato il valore testimoniale e ha parlato di «contromemoria», di una «controcultura della controcultura», evidenziando come sia necessario considerarla non solo come una narrazione godibile per le sue qualità letterarie, ma anche come documento da interrogare per ricavarne dei dati suscettibili di una rinnovata interpretazione storica. Per ‘addomesticare’ oltre al mito di Bob Dylan, anche quello di un’intera generazione, senz’altro alla ricerca di un senso nuovo e profondo, inquieta e sospinta da un’intensa joie de vivre, ma non per questo meno vulnerabile di fronte alla frustrazione e al fallimento, alle tentazioni e ai travestimenti del conformismo.

In qualsiasi modo si scelga di accostarsi a questo libro denso e bellissimo, resta, però, il senso di una vivacità incredibile, di una figura femminile desiderante e coraggiosa che, nel riscrivere la sua vita, la rivive con l’immediatezza e l’audacia della prima volta, applicando i suoi filtri, le sue reticenze e le sue scomposizioni, ma senza mai dare l’impressione d’imbrogliare: non c’è impostura, non c’è auto-indulgenza, solo il piacere di lasciare agli altri una verità parziale e veloce come una pennellata su un’epoca che fu e mai più sarà. E non c’è neppure nostalgia, solo l’orgoglio (e il privilegio) di poter raccontare di aver vissuto in un tempo e in un luogo in cui tutto succedeva.

Carolina Iacucci
Carolina Iacucci
Classe 1988, è dottoranda in letterature comparate e, occasionalmente, insegnante di lettere antiche e moderne. Nei suoi studi accademici, si è occupata di Euripide e Bergman, poeti greci classici e contemporanei, Shakespeare e Karen Blixen. Appassionata di filosofia, cinema e giornalismo.

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