Gli Akron/Family tornano a Roma a metà di un tour tutto italiano, il Tree of Life/Infinite Roots, otto date da Nord a Sud per un progetto unico e ambizioso improntato alla sperimentazione dal vivo, attraverso una fusione di orizzonti tra l’esperienza della band e quella degli Oneida, gruppo newyorchese dalle atmosfere decisamente più cupe e minimali. È infatti il batterista degli Oneida Kid Millions (all’anagrafe John Colpitts) a prendere il posto di Dana Janssen ed accompagnare Miles Seaton (basso, voce) e Seth Olinski (chitarra, voce) nell’impresa, complicando ulteriormente il meticciato di stili e riferimenti che da sempre animano lo spirito Akron. Pezzi vecchi, ma soprattutto nuovi vengono concepiti sia dal vivo che on the road, per poi essere registrati al loro imminente ritorno negli States per l’etichetta di famiglia, la Family Tree Records. Il pubblico italiano li accoglie con calore e, ci garantiscono, è il tester ideale per lavorare d’improvvisazione. I nostri, che fin dal loro esordio hanno cavalcato l’onda del free folk di nuovo millennio contaminandolo con punk rock, psichedelia e una spiccata predisposizione per le armonie vocali, propongono un set turbinoso, virulento, tenuto insieme da jam sessions decisamente heavy (fu una corda tonante suonata da Seth a ricordare a Michael Gira quanto grandi fossero gli Swans e quanto valesse la pena riportali in auge dopo ben dodici anni), climax energici e caotici che finiscono in alcuni casi per spazzare via i pezzi canonici, in altri per valorizzarli (una commuovente Crickets), ricavando loro uno spazio tra una sponda e l’altra dell’imprevisto. L’esperienza non è solo collettiva e sinergica, ma anche individuale, come ci raccontano: per questo gli “assoli” di ognuno di loro (un Kid Millions davvero straordinario) diventano epicentri di un movimento terrestre più ampio e inarrestabile, prolungato forse qualche minuto di troppo… o forse no: dipende da quanta voglia abbiate di buttarvici in mezzo. Loro provano a condurci per mano, scendendo nel pubblico, intonando un gospel a cappella di cui ci lasciano il timone e coinvolgendoci in un “babababa” vocale (corredato da movimenti delle braccia e sguardi da piena meditazione estatica) che farebbe sorridere compiaciuta Joan La Barbara. Dopo un soundcheck lungo e meticoloso ci spostiamo per quattro chiacchiere. Sulla strada per il pub Miles mi spiega quanto sia ormai ossessionato da un sound pieno e potente, di come si sia sbarazzato dai tappi per le orecchie ormai da anni. Arzilli e pronti alla battuta ci parlano a lungo della magia dell’improvvisazione, della loro crescita, ma anche della Brooklyn di ieri e della critica musicale ai tempi di Pitchfork. Proprio come i loro dischi: mai l’ultima parola data, ma solo uno snapshot del momento presente. (continua alla pagina successiva…)