Il cosiddetto Gothic Rock è stato fra i più caratteristici e longevi sottogeneri originati dal ribollente calderone post-punk di fine anni settanta. Canoni musicali ed estetici ben precisi ne hanno fatto un bacino di reclutamento continuo per schiere di adepti fedelissimi; le facce impiastricciate di questi ultimi sono tuttora uno spettacolo consueto persino per chi frequenta le discoteche di provincia. Al di là delle ragioni che ne possono aver determinato il successo, è evidente come il Goth abbia assunto nel tempo i tratti di un vero e proprio fenomeno di massa. Come spesso accade in queste situazioni, il messaggio propagandato dai capostipiti del movimento è stato completamente svilito. Qualcosa di simile era già accaduto con la nascita di Oi! e Hardcore: proponendosi di recuperare l’originario spirito punk, tradito dall’avvento della new wave, questi stili si erano rivelati ottimi strumenti di aggregazione ma avevano esaurito quasi subito la loro spinta innovativa. Tutto era stato ridotto ad una serie di regole estetiche e compositive, mentre la creatività scivolava placidamente lungo lo scarico del cesso. Mi sento di poter affermare che, allo stesso modo, la maggior parte dei gruppi Goth nati nel corso degli anni ’80 siano stati del tutto ininfluenti sotto il profilo musicale; non a caso il genere è fra i più bistrattati dalla critica di settore. Se poi queste vi sembrano accuse senza senso vuol dire che non avete mai ascoltato i Sex Gang Children. Ciò detto, sarebbe un grave errore negare la qualità di quel pugno di produzioni che, a ridosso del punk, gettarono inconsapevolmente i semi del nascente movimento. Già i primi lavori di Siouxsie and The Banshees, Joy Division e Cure evidenziano lo sforzo di un manipolo di artisti coraggiosi per trovare una personale via al rock appena imbastardito, dimostrando una notevole dose di originalità. In ultima analisi, però, furono proprio i Bauhaus dell’istrionico Peter Murphy ad imporsi come paradigma di tutto il Goth a venire. Arrivati sulle scene un paio d’anni più tardi rispetto ai loro illustri colleghi, ne avrebbero saputo sintetizzare brillantemente le intuizioni. Vicini ai Banshees nella concezione teatrale della performance, i Bauhaus potrebbero essere visti come l’ultimo ensemble glam. Sulla carriera della band incombe l’ombra lunga di Bowie e numerosi sarebbero stati gli omaggi resi dai quattro a eroi del glitter rock quali Bolan, Eno e Bowie stesso. Sebbene la mascherata del gruppo di Northampton assumesse connotati lugubri e le liriche affrontassero spesso tematiche oscure e morbose, i nostri non pretesero mai di essere presi troppo sul serio. Il loro era un cabaret dell’orrore, un grandioso spettacolo grandguignolesco il cui scopo dichiarato era divertire e divertirsi. D’altra parte il personaggio di Murhpy era lontano anni luce dalla poetica sofferta di un Curtis o di uno Smith. Sebbene il cantante adoperasse un lessico ricercato, i suoi testi si rivelano il più delle volte surreali o totalmente assurdi, non privi di spunti ironici. Tale ironia però non venne recepita né da una critica sempre pronta a denigrare il gruppo, né da quei fan che non seppero guardare oltre il make up vampiresco del leader. Il rifiuto dell’etichetta che gli era stata assegnata portò in seguito lo stesso Murphy a comporre un testo intitolato Crowds (folle) in cui, con parole non tenere, si liberava del proprio fardello: “… che cosa pretendete da me? Un folletto emaciato e triste? Un conte pallido e truccato? … per colpa vostra mi sono dato per vinto, ho disprezzato e odiato…inutili merde, stronzetti capricciosi…”.
In The Flat Field è la stupefacente opera prima dei Bauhaus. Pubblicata originariamente nel 1980 dall’indipendente 4AD/Beggars Banquet, è stata ristampata lo scorso ottobre dalla stessa etichetta. La recente Omnibus Edition si presenta in due distinti compact disc. Il primo ripropone l’album nella sua integrità, riportando i brani alla sequenza originaria – modificata nel 1988 in occasione della masterizzazione su CD. Nel secondo è possibile trovare tutti i singoli e le b-sides del periodo, nonché numerosi out take e versioni alternative dei pezzi presenti in scaletta. Mentre capolavori dello stesso genere come Join Hands dei Banshees o Unknown Pleasures dei Joy Division si fanno apprezzare per un’unità stilistica quasi monolitica, In The Flat Field mostra già i segni dell’eclettismo che avrebbe sempre contraddistinto il gruppo di Northampton. Sebbene tutti i brani presentino un sound di fondo decisamente oscuro, le influenze stilistiche spaziano dal dub al funk, dall’heavy metal all’avanguardia colta. Inoltre, a fronte dell’atteggiamento posato che aveva caratterizzato le band citate precedentemente, l’album mette in luce l’attitudine ben più scatenata dei quattro. Murphy si rivela un personaggio estremamente carismatico e un’eccezionale animale da palcoscenico, degno erede tanto del Duca Bianco quanto dell’iguana più famosa del rock. Le sue performance selvagge sono comparabili solo a quelle di Nick Cave, degli australiani Birthday Party. Il suo particolare registro, capace di spaziare da bassi profondissimi ad acuti ed urla belluine, lo avrebbe imposto come la voce Goth per eccellenza. Daniel Ash si guadagna appieno il titolo di guitar hero: secondo in questo solamente ad Andy Gill dei Gang of Four, l’artista avrebbe rivoluzionato il linguaggio della chitarra elettrica tramite un alfabeto fatto di armoniche glaciali, rumorismo, feedback e uso compulsivo del delay. I fratelli David (conosciuto come David J.) e Kevin Haskins, rispettivamente basso e batteria, vanno semplicemente a comporre una delle migliori sezioni ritmiche di tutto il panorama post-punk. Apre la cadenzata Double Dare: il basso distorto di David J. squarcia il silenzio e si lancia in un granitico riff start and stop, subito seguito dalla ritmica meccanica e ossessiva della batteria. La chitarra di Ash scricchiola in sottofondo, impossibile seguirne la traiettoria tanto improvvisati e casuali sembrano i rumori che essa produce. La catacombale voce di Murphy si abbandona progressivamente ad urla bestiali, mentre snocciola un testo dai risvolti insolitamente positivi (“… ti sfido ad essere orgoglioso, ad urlare forte le tue opinioni…”) in un’atmosfera da sabba infernale. Inizio da cardiopalma, ma quanto segue – ovvero il pezzo che da il titolo all’album – non è certo da meno. In the Flat Field è una danza scatenata al ritmo tribale dei tamburi: Ash si rivela abilissimo nel determinare l’andamento del brano con il suo strumento; da prima una presenza quasi impercettibile, scatena sul refrain una tempesta di suoni lancinanti mentre Murphy inveisce selvaggiamente contro il tedio provinciale. God in an Alcove fornisce l’occasione per tirare momentaneamente il fiato. Messi da parte distorsore e feedback, una chitarra carica di riverbero alterna arpeggi ad accordi secchi di chiara derivazione funk. Grande lavoro di Haskins sul charleston, pulsazioni dub di David J. e un cantato emulo del Bowie periodo Ziggy Stadust. Ma la calma dura poco perché Dive è un tiratissimo punk-funk straziato da sassofoni impazziti. La ballata elettrica Spy In The Cab, affidata quasi esclusivamente alla voce e alla chitarra, chiude maestosamente la prima facciata. Small Talk Stinks, nell’economia complessiva del disco, è decisamente fuori dagli schemi: una impalcatura di chitarra noise fatta di armoniche e corde stoppate si sposa ad un languido piano elettrico, mentre Murphy recita con tono da crooner un testo criptico e bislacco. St. Vitus Dance è l’ennesima sarabanda infernale a tutta velocità. Ash cede il ruolo di solista a David J., che con il suo basso pesantemente effettato si esibisce in una serie di sibili e ronzii; il leader ha modo di scatenare tutta la sua carica animalesca in un finale urlato dove ricorda molto l’Iggy Pop di Funhouse. La lugubre Stigmata Martyr schiera un riff quasi sabbathiano abbinato ad una batteria puramente funk, mentre un Murphy posseduto ripercorre l’estasi del martirio. A chiudere questo capolavoro di gotico moderno Nerves, un must assoluto di oltre sette minuti: suoni concreti e pianoforte, atmosfera da cabaret paranoico; tensione che cresce a poco a poco, esaurimento nervoso dietro l’angolo (“… Nervi come nylon, nervi come acciaio…”); un riff ossianico esplode all’improvviso, accelera progressivamente e guida il pezzo verso un brusco stop finale. A seguito del fortunato esordio il cammino dei Bauhaus sarebbe proseguita con altri tre album di pregevole fattura (dei quali anche Mask viene oggi riproposto in Omnibus Edition) e si sarebbe concluso solo nel 1984, dopo cinque anni di onorata carriera. Dimenticatevi le occasionali reunion degli anni ’90 e ’00, operazioni di cui non si sentiva francamente la necessità. L’eredità più duratura del gruppo si trova proprio in questi solchi, che del Gothic Rock sono al contempo il massimo esempio e il definitivo testamento. Imprescindibile.