Non esiste artista visuale in circolazione come Zia Anger
Non esiste artista come lei che abbia la capacità di cogliere l’invisibile da ciò che abbiamo già visto.
Se confrontassimo l’estetica vintage che impazza nel nostro paese, orientata dalle consuete traiettorie imitative (il “facciamo finta che“), il confronto sarebbe schiacciante.
Quando la Anger realizzava alcuni dei video per Angel Olsen, in particolare Hi-five, raccontava il suo sguardo sulle performance pop degli anni sessanta, quei promo video che rappresentano una delle tante declinazioni del mercato nel rapporto tra audiovisivo e musica, e che tutt’ora vengono recuperate con modalità celebrative, per quel senso di forte attrazione che il passato esercita sull’occhio, da un punto di vista strettamente estetico e formale.
Al contrario, Zia Anger si dichiara sin da subito interessata allo scarto, al vuoto e a quella stessa rigidità che i promo video di sessanta anni fa le sembrano trasmettere. Per questo riesce a spogliarli e ad investirli con una nuova luce.
Si concentra quindi su quel vuoto e invece di considerare quello spazio con il “rispetto” della clonazione filologica, lo attraversa con nuovo stupore, lo desertifica, lo trasforma in una visione acuminatissima sul vuoto e sulla solitudine.
In questo senso, il ritratto, e quindi l’azione, il gesto, la presenza del corpo e del volto, è centrale nella videografia di Zia Anger, fino al bellissimo Siphon, realizzato per Zola Jesus un anno fa e capace di raccontare molto di più dei recenti orpelli teatral-performativi che piacciono tanto alla musicista americana. Sul piano performativo, del resto, aveva imboccato una direzione feroce, opposta a quella attuale della Jesus e molto più potente, sfuttando la riflessione identitaria di Mitzki.
Se ci si ferma a quello che ha scritto la stampa italiana sul video di Beach House, sostanzialmente copiando e incollando lo statement diffuso da Sub Pop e poi da Pitchfork, sembra che Zia Anger abbia realizzato una fantasia astratta. Punto e basta.
Andiamo per ordine. Il bianco e nero di “Dark Spring” è certamente diverso da quello di Tiniest Seed, il video girato per la Olsen nel 2012, ma ha moltissimi punti di contatto con i modi di elaborazione di un certo immaginario a cui ci ha abituato l’artista visuale americana. Allo spazio performativo chiuso in uno studio, immagine già “mentale” dei promo video storicizzati, se ne sostituisce uno più “definito” in tal senso. “Dark spring” è uno sbocciare di forme e fenomeni luminosi, al confine con i margini negativi dell’immagine, gli stessi che immergono il volto della Olsen nel buio di un limbo fotografico, reinventato a partire dalla memoria di una performance di Peggy Lee.
“Dark spring” è quindi mentale come molti dei video della Anger, ed è una soggettiva impossibile che entra dentro lo spazio domestico come un ladro, per rivelare una nuova epifania a partire dalla persistenza del vuoto, degli oggetti, delle stanze dove il passaggio umano è un’ombra. La forma è ellittica, si apre con lo sbocciare di un fiore filmato in timelapse e si chiude con la morte dello stesso. Entro questo ciclo, gli elementi sono quelli pulviscolari colpiti dalla luce, l’acqua e il fuoco. Ma sopratutto, l’ingresso che consente di uscire dallo spazio domestico è delimitato dal monitor di un computer, una nuova genesi che scatena lo sbocciare di una nuova vita dal grembo oscuro di quella in cui siamo sprofondati.
Organico lo ha definito la Anger. Appunto.
E se questo immaginario si accorda perfettamente con quello optical dei Beach House, la distinzione tra virtuale e reale è assolutamente palindroma in questo viaggio geniale. John Keats e la sua poesia, nell’aria.