Senza andar troppo lontano nella ricerca delle fonti, il nocciolo di un’esibizione dei Calibro 35 è appunto questo: stupire e divertire, come nel massimo splendore della musica barocca. L’operazione che la band di Enrico Gabrielli, Massimo Martellotta, Luca Cavina e Fabio Rondanini ha realizzato, dal 2008 a questa parte, è in questo senso ben più profonda di quanto si possa pensare. Nati, a tutti gli effetti, come cover band (nonostante la “spregevole” accezione che questa locuzione ha oramai assunto) o revival band, i quattro (rectius: 5, dal ruolo di eminenza grigia ricoperto da Tommaso Colliva non si può prescindere) hanno compiuto un percorso, lineare ed esaltante, che ha permesso loro di svincolarsi definitivamente dalle rivisitazioni dei vari Morricone, Bacalov, Micalizzi e via citando, trascendendo la funzionalità per cui quelle musiche nacquero. Oramai le musiche (originali) dei Calibro esistono e vivono a prescindere dalla presenza di immagini o di un immaginario, da Maurizio Merli o Gastone Moschin, da Fernando di Leo o Umberto Lenzi, segnano un confine dall’esistenza stessa persino dei compositori cui si ispirano, proprio in ragione delle travolgenti esibizioni dal vivo, nelle quali l’abilità dell’interprete supera sensibilmente l’idea compositiva di partenza. Lo spettacolo, infatti, è da leccarsi i baffi e rispetta proprio tutte le regole di cui s’è detto in apertura. Stupore, perché oramai il coefficiente di difficoltà esecutiva è davvero elevato: Gabrielli si impegna nel cercare di suonare contemporaneamente più strumenti possibile (manca giusto qualcuno che gli faccia il solletico), Martellotta si mangia letteralmente la scena negli assoli sui sovracuti, Cavina (impassibile e granitico) e il rullo compressore Rondanini (micidiali negli stacchi) formano la sezione ritmica perfetta. Divertimento, perché la performance dei Calibro non lascia fiato in gola e non lascia le gambe ferme un secondo; ed è noto quanto il pubblico nostrano si scateni solo a concerto finito.
I cambi repentini di tempo, perché, rispetto al passato, c’è maggior uso del tempo dispari senza che il tiro del pezzo vada giù un istante: in questo, ad esempio, rispetto alla sinuosa versione su disco, New Delhi Deli (tratta dall’ultimo Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale) aggredisce con il suo 5/4 e lascia svettare il flauto di Gabrielli, mentre Rondanini tappezza di sedicesimi le frequenze sottostanti. Il concetto di virtuosismo, poi, oltre ad essere addirittura superfluo in questa sede, non può essere letto se non in matrimonio con quello di contrappunto e di “fuga” (in senso molto lato, me lo perdonerete). Il virtuosismo, per i Calibro, rifugge dall’essere una fredda esibizione di capacità tecnica, come può verificarsi nei gruppi jazz feticisti dell’assolo. Per i nostri, nulla ha più importanza della compattezza armonica dell’insieme ed in questo senso la fisionomia melodica dei vari assoli trova compiuta realizzazione. Si veda, ad esempio, come Martellotta si serve delle scale cromatiche ascendenti, allo stesso tempo, per raggiungere la vetta della frase, non tralasciando mai il significato di ogni singola nota nel suo contesto armonico, legandosi a meraviglia con le tessiture tastieristiche di Gabrielli. Così, mai una rullata di Rondanini o un vuoto di Cavina sono pleonastici, bensì sempre funzionali a sottolineare un climax, armonico o melodico che sia.
E della fuga, si parli non certo nell’accezione di “forma” musicale, bensì di tensione emotiva e di impossibilità di quiete, unita al senso dell’improvvisazione che i quattro hanno messo in mostra in studio (almeno così si pensa, ché di improvvisato, dal vivo, non sembra esserci nulla, tanto fila liscio il tutto). In tutto ciò, il concerto dei Calibro può tranquillamente definirsi barocco, spinto all’eccesso, alla ricerca dell’irraggiungibile e dell’estremo. E, non a caso, della musica barocca, i sopracitati compositori rubavano le progressioni e la concezione ritmica (il barocco contiene in sé già il jazz e il funky, giacché le parti e le voci degli strumenti si muovono incessantemente l’una alla ricerca dell’aggancio all’altra). L’apice del live è infatti il tema di Milano Calibro 9 (originariamente di Luis Bacalov ed eseguito dagli Osanna): uno scapicollarsi a velocità folle, molto più dell’originale, in un vortice di scale, arpeggi e fioriture di tastiere su un basso discendente (così come Moschin “scendeva” nuovamente nell’abisso del crimine organizzato), da spellarsi le mani.
Giusto spazio viene ovviamente dedicato ai pezzi tratti dell’ultimo album (registrato a Brooklyn in tempi rapidissimi e ora uscito per Venus), che presenta, in generale, significative novità rispetto ai precedenti: un utilizzo più “massiccio” della voce (prima praticamente inesistente), un alleggerimento dei cliché funkeggianti (fino quasi a sconfinare nella “ballad” con Pioggia e cemento), solamente due cover (Morricone e Piero Piccioni i prescelti) e deviazioni psichedeliche ora ironiche (New Delhi Deli) ora assai cupe (Massacro all’alba, che dal vivo, eseguita per ultima, stende con abbacinanti tappeti d’organo).
Ad imporsi dal vivo sono, comunque, i vecchi “classici”: dopo il cameo di Dellera (opening act della serata, in solo), alla voce in L’appuntamento e Il beat cos’è, il concerto infila uno via l’altro cavalcate travolgenti, fra cui si distinguono una Convergere in Giambellino che scatena i coretti del pubblico, Bovisa funk e Gangster Story, accelerate da pugno nello stomaco. A rendere il tutto ancora più coinvolgente ci pensa poi l’aspetto umano della serata: un Gabrielli che, raramente come nell’occasione, “vive” il concerto a fior di pelle. Altrimenti imperturbabile, stavolta manda a quel paese uno spettatore e se ne scusa subito dopo, scatenando l’applauso; ironizza sulle presunte stonature sue e della band (bugia, il Gabrielli cantante va benissimo); ad una nuova provocazione proveniente dalle prime file, si inviperisce letteralmente e intima di battere “’ste cazzo di mani” durante la “manfrina dei bis” (parole sue). Se ci fosse stato da menar qualcuno, gli avremmo dato volentieri una mano.
La band avverte, in un lampo, che c’è da tirar fuori l’armeria pesante e sfodera un terzetto finale di bis da far venir voglia di pretendere, a quel punto, almeno un’altra ora di concerto, ma dalle casse partono i Black Keys. Serata memorabile. E acustica del locale finalmente all’altezza di chi calca il palco.