La musica è affare serio. Eppure senza la sua controparte faceta stonerebbe su un disco del carismatico Ian Svenonius, ormai da più di vent’anni artefice di un’estetica rock che sposa le sue radici post-punk con uno spirito anarchico nel tempo riaggiornato e stemperato in numerosi progetti. Portavoce nella scena musicale di Washington di band come Nation of Ulysses, The Make-Up, Weird War, solista sotto pseudonimo David Candy, conduttore di un suo programma online e persino saggista (The Psychic Soviet uscì nel 2006 per Drag City Press) Svenonius torna con il secondo album a nome Chain and The Gang, riproponendo il suo stile ruvido e canzonatorio in salsa garage-blues e attingendo al passato in un continuo, ironico rimescolamento dei generi. Al disco collabora una gang ben nutrita, tra cui spiccano le immancabili voci femminili, come di consueto in dialogo di botta e risposta con il crooning di Svenonius, tra cui Veronica Ortuno (The Carrots, Finally Punk), Sara Pedal (Seahorse Liberation Army) e, udite udite, la compagna di scuderia Tara Jane O’Neil. Fin da subito il disco si assesta su un andamento punk blues che intrattiene l’ascoltatore senza troppi scossoni; spiccano gli assoli all’organo (Livin’ Rough), mentre i cori si infilano sottopelle in una frazione di secondo. I momenti più morbidi vengono conditi di sarcasmo (It’s a Hard Hard Job (Keeping Everybody High)), le chitarre ribollono da cima a fondo e fanno di Detroit Music (divisa in due parti) l’inno del disco, oltre che uno dei suoi pezzi migliori e più concitati, con il suo incisivo attacco hendrixiano. La title-track si candida ad unico insoluto del lavoro e per questo si guadagna un’attenzione particolare: un’atmosfera cupa in bassa fedeltà, un inquietante coro perpetuo di voci maschili che esclama “Music is not for everyone!”, quasi un rantolo da prigionieri incatenati, per l’appunto, su cui Svenonius impianta un discorso provocatorio e insofferente sulla presunta esclusività della musica (“Do people who listen to music even like it?/Do people deserve it even when they buy it?/No”). Una punta d’oscurità non guasta affatto nell’economia di questo disco improntato allo scherno e al coinvolgimento garantito. Youth is Wasted on The Young, in bilico tra un filosofeggiare facile e la consueta vena di critica sociale, è un ottimo esempio dell’ottica dissacrante di Svenonius, sempre pronto a strappare una risata all’ascoltatore e ad ammonirlo al contempo. A suon di reprise il disco si avvia alla sua conclusione, scontando una certa vacuità che di certo non lo rende imprescindibile, ma un lavoro cui ritornare volentieri in cerca di sano blues-rock. La personalità del suo creatore saprà ammaliare i neofiti e appagherà gli amatori: “Not everyone”, non vi illudete.