Con un prologo pseudo Bowiano e qualche eco glam nella successiva Marina, più dalle parti di Morgan che da quelle del duca bianco, si apre il quarto lavoro sulla lunga distanza per i Dadamatto, il più pop nella discografia della band di Senigallia. Si rimpiange la genuinità un po’ debordante dei “Moda” di Canto Pagano, capaci di giocare con la forma di un genere dilatandola in tutte le direzioni e mantenendo la palla al centro, ma i tempi sono sfortunatamente quelli di un nuovo devastante pret-a-porter e la via imboccata da Rococò è quella di un elettro-pop forzatamente eclettico, indeciso sulla strada da intraprendere e depotenziato da una tendenza quaresimale al cantautorato identica ad altre mille (A due passi dal mare, Arrivederci, I cinque dell’Ave Maria).
Nel calderone c’è un po’ di tutto: power-pop, i Baustelle che fanno il verso a Battiato, gli Amor Fou più pretenziosi, intellettualismi d’accatto che non acchiappano più nessuno (Avevano vent’anni e si drogavano come degli eroi) e sopratutto un sound che tende alla saturazione tra tastiere e chitarre senza trovare veramente una chiave che non sia quella della dispersione.
Ma l’aspetto peggiore riguarda l’incapacità di Rococò di arrivare al cuore o ai testicoli, di mettere lo stomaco in subbuglio o di attivare il cervello; capita agli esordienti, nella necessità di metterci dentro tutto per piacere a tutti somigliando a niente, non a chi è alla quarta prova.
E se il passaggio a La Tempesta sorte questi risultati, cancellando una propensione sperimentale forse non del tutto convincente e riuscita, ma sicuramente genuina nel fondere i suoni della vecchia SST con la canzone italiana, allora meglio smettere.