venerdì, Novembre 15, 2024

Giuliano Dottori: L’arte della Guerra e i miei dischi preferiti per il Record Store Day 2014

Mentre attendevo Giuliano Dottori ho avuto modo di scambiare qualche parola con Fabio Bianco, il proprietario di Psycho, il negozio di dischi milanese che ci ha ospitato per la chiacchierata con Giuliano sui suoi album del cuore e sulla sua nuova fatica, L’Arte Della Guerra vol.1.
Fabio mi racconta che Psycho esiste ormai da circa 25 anni e che per sopravvivere oggi un negozio di dischi deve puntare sulla specializzazione, trovare il suo bacino d’utenti e tenerselo stretto, perché “non esiste più la coppia di fidanzati che passeggia e se vede il nuovo disco di Bowie entra per comprarlo”. In quest’ottica il Record Store Day diventa importante, ma solo se rimane fedele alla sua idea originaria, quella scritta nel suo nome. Invece in questi anni Fabio ha notato una degenerazione del significato della giornata, che è diventata per molte case discografiche solo un modo in più per fare cassa, facendo uscire edizioni speciali di dischi spesso distribuite anche tramite servizi online, fregandosene quindi dei negozi ma anzi andando a danneggiarli ancora di più. Psycho festeggerà comunque il Record Store Day, facendo suonare all’interno del negozio una serie di artisti, milanesi e non, durante la giornata del 19 aprile, tentando di portare avanti l’idea originaria e ricalcando in piccolo quello che altrove, e specialmente negli Stati Uniti, viene fatto per festeggiare i negozi di dischi tout court.
Interessante e appassioanta conversazione introduttiva che serve a fare gli onori di casa per l’arrivo di Giuliano Dottori, interrogato qui di seguito su alcuni dei suoi dischi preferiti, ma anche sul suo ultimo lavoro in uscita, L’arte della guerra vol 1.

Il primo disco che hai scelto è Fanfare di Jonathan Wilson…

Il link è il concerto che abbiamo fatto insieme l’anno scorso al Carroponte, quando questo disco non era ancora uscito tra l’altro. Parlammo un po’ nel backstage e mi disse che ci sarebbero stati Graham Nash e David Crosby a fare dei cori e lì pensai che in quel modo si sarebbe chiuso un ciclo. Di fatto il primo disco mi colpì davvero tanto, è il classico disco che metti su e pensi “vabbè, sappiamo già cosa stiamo per ascoltare”, però è come se in realtà fosse un passo in avanti. È come se avesse preso quella West Coast psichedelica di fine anni sessanta e l’avesse spinta ancora più in avanti. Questo nuovo disco è ancora un gradino sopra, perché si spinge ancora oltre, dal punto di vista musicale è ricchissimo. In Italia ovviamente non sarebbe possibile tutto ciò, mi piace perché si sente che c’è una libertà creativa totale, e si vede conoscendolo, è un quarantenne fricchettone totale. Poi il concerto mi ha quasi annoiato, perché era troppo soul e con improvvisazione, molto meglio su disco secondo me. In definitiva, l’ho scelto perché è un disco che dimostra che ancora oggi si possono fare cose del genere, è un bell’esempio per chi come me ama quei suoni e quell’approccio.

Passiamo al secondo allora, tra i cd usati…

Songs Of Leonard Cohen. Mi ha colpito appena sono entrato nel negozio perché Leonard è uno dei tanti che conoscevo pochissimo. Ho sempre pensato, per una mia curiosità che voglio in qualche modo mantenere intatta, di non avere lacune da colmare a tutti i costi. L’esempio che faccio spesso è David Bowie, che all’epoca degli ascolti adolescenziali non mi piaceva e l’ho rifiutato, non ascoltandolo per molti anni. Poi dopo qualche anno mi sono detto “vediamo ‘sto Bowie che effetto mi fa” e naturalmente mi ha devastato. Leonard Cohen è un altro. Lo ascoltava mia madre, aveva solo un disco però, The Future in cassetta, lo metteva su in macchina e quando mi capitava di sentirlo la sua voce non mi piaceva e le canzoni mi annoiavano. Poi recentissimamente, tipo tre mesi fa, smanettando su Deezer ho messo su Suzanne e poi ho lasciato andare il disco, che è veramente pazzesco, un disco incredibile. Ci sono rimasto un po’ di merda e per un mese ho ascoltato solo quest’album per recuperare il tempo perso. È bellissimo, ricchissimo, con dei testi sconvolgenti, e anche gli arrangiamenti sono eccezionali. A me piace tantissimo che ci siano tutte queste voci femminili nei cori, costantemente, è proprio una sua caratteristica. Quindi il perché di questo disco, oltre alla sua bellezza, sta nel fatto che l’ho ascoltato per la prima volta a trentasette anni suonati, che per me è una bella cosa.

Passiamo al terzo, un altro CD, che avrei scelto anch’io probabilmente…

No Code dei Pearl Jam. A parte che il packaging del CD era bellissimo, con tutte le polaroid che uscivano fuori, per me questo è il disco più bello dei Pearl Jam. Di solito quando dico questa cosa si inizia a litigare con i fan dei Pearl Jam, perché è un gruppo con cui si ha un legame viscerale, si ha quel tipo di rapporto e di trasporto verso Eddie e gli altri, per come funziona il loro collettivo e per come hanno gestito molte cose lungo la loro carriera. Anche se per esempio Jack Irons non è il mio batterista preferito dei Pearl Jam, qui fa un lavoro egregio, e poi semplicemente non trovo una canzone che non sia buona. Vitalogy per esempio è un disco strepitoso, però lo trovo un po’ irrisolto, lo trovo figo perché segna il passaggio di consegne da un universo grunge vecchio stile a uno rock che si sposta verso l’America più classica. Questo disco viene subito dopo Mirrorball con Neil Young e secondo me si sente quella cosa lì, che anche loro hanno trovato definitivamente la loro strada. Poi purtroppo dopo questo disco è andata sempre peggio, anche se Yield non è male e anche Riot Act, ma gli mancano un po’ le canzoni a livello compositivo. Ora sono un gruppo che andrei a sentire live, ma i dischi meglio evitarli… Tornando a questo invece, è un disco pazzesco, e bisogna anche considerare che quando è uscito avevo vent’anni e l’ho straconsumato, come ad esempio qualche anno prima The Southern Harmony and Musical Companion dei Black Crowes o August And Everything After dei Counting Crows. Il momento che mi fa ancora godere tantissimo è il passaggio tra Sometimes e Hail Hail, in cui c’è quel gioco di mastering per cui non è ancora finito il fadeout di Sometimes e già ti arriva la mazzata del pezzo successivo. Ogni volta lo aspetto ed ogni volta che arriva è una bomba.

 

Torniamo in zona vinile ora, con un classicissimo…

Bitches Brew di Miles Davis. Siamo nel 1970, in quel momento di creatività pazzesca per tutta la musica. Davis per me è uno dei più grandi compositori di tutto il Novecento e la sua musica mi ha accompagnato sempre nella mia vita, perché mio padre era un grande appassionato di jazz quindi un po’ di vinili di Davis giravano sempre per casa, sia del suo periodo iniziale con il bebop che di tutta la fase cool e anche di quella elettrica. Aveva una musicalità e un piglio incredibile. Bitches Brew è sicuramente uno dei dischi più importanti assieme a Kind Of Blue; nello stesso periodo c’è anche In A Silent Way, che è un altro viaggione bellissimo, un disco di due tracce di venti minuti ciascuna. Una cosa che contraddistingue Davis è anche il fatto che tutti i musicisti fighi lo sono perché hanno suonato con lui, ha formato un’intera generazione di jazzisti e devo dire che dopo di lui e dopo di loro si è un po’ esaurita la creatività. Era incredibile perché lui, già con il cool jazz, ha ridefinito il jazz, e poi ancor di più iniziando a fare queste contaminazioni. Herbie Hancock, Chick Corea, John McLaughlin, erano tutti musicisti che lui prendeva e sfruttava anche, perché pare che fosse anche un grande stronzo, quasi come James Brown, che metteva multe se si andava fuori tempo, ma con i quali ha fatto cose incredibili. Altri tempi, altri tempi.  (continua nella pagina successiva…)

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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