In una lunga e rara intervista rilasciata lo scorso ottobre al Guardian, i Godspeed You! Black Emperor hanno dichiarato che, a loro avviso, non è musica quella che non esprima ciò che nella società o nell’individuo non funziona o funziona male; quella che non esprima malessere o ingiustizia. Non è musica, insomma, se esprime assoluta approvazione per lo stato delle cose. Difatti, ha aggiunto il collettivo canadese, le canzoni che hanno lasciato il segno nella storia sarebbero canzoni di inquietudine, di denuncia sociale, o di ribellione – espressioni di insoddisfazione rispetto a se stessi o alla collettività.
I Godspeed parlano poco, ma quando parlano si esprimono per assiomi come questo. Per loro non c’è motivo di perdersi in chiacchiere inutili: il fallimento della società è sotto gli occhi di tutti e bisogna denunciare un ordine delle cose palesemente corrotto e distruttivo. Non si tratta di essere una band schierata politicamente – per loro si tratta di fare musica per le ragioni e finalità stesse che in antichità hanno spinto l’uomo a inventarla.
Con queste considerazioni alla mano, facciamo ora mente locale a ciò che è stata la storia della musica rock dagli anni Sessanta, indicativamente, a oggi. Tutto torna, no? Ci sono stati i menestrelli riccioluti con l’armonica, concept album intitolati The Wall, il punk, Frank Zappa, i Doors, i Velvet Underground, i Parliament. Già. E oggi?
Sarà che il rock è morto, che il punk è sepolto, che il grunge era morto già da vivo, o sarà che ogni musica per essere degna di tale nome debba rispecchiare il proprio tempo e farlo in maniera concreta?
È palese che oggi la musica ci propina molti più fenomeni da baraccone rispetto a quanto faceva trenta, quarant’anni fa. Che oggi c’è troppo da scartare, che si tende al nostalgico e si fa fatica a trovare cose nuove da dire. Ma il punto è che c’è dispersione, come in uno Shangai in cui tutti i bastoncini prendono vita propria per riemergere dal caos. Ci sono mille vie di fuga intasate e apparentemente nessuna via d’uscita. Ogni individuo, ogni entità corre in una direzione a lui congeniale, scavalcando e prevaricando, oppure cercando di respirare.
Questo è, più o meno, quel che ho capito dei nostri tempi. Che poi è anche quello che ho capito della musica dei nostri tempi, quelli in cui viviamo oggi – quelli in cui il punk si chiama Godspeed You! Black Emperor. Che, a dire il vero, non sono un gruppo punk e nemmeno post-rock, ma sono forse l’unico gruppo che, a distanza di dieci anni dall’ultimo disco prodotto, è stato capace di tornare e recuperare in pieno il filo del discorso da loro stessi iniziato e interrotto bruscamente. Soprattutto, ha il merito di aver fatto tutto questo esclusivamente con musica strumentale.
Alleluja! Don’t Bend! Ascend! è il quarto album di studio del collettivo di Montreal. Non credo abbia molto senso recensire questo disco dal punto di vista prettamente musicale. Ci si può aspettare tutt’al più una descrizione fisica dell’album: quattro tracce. Due di durata superiore ai venti minuti e due di circa sette minuti, rispettivamente suddivise in due dischi nell’edizione LP – di cui il primo è un 12″ e il secondo un 7″. Il cd, invece, contiene un unico disco con le quattro tracce incise nella sequenza originaria – ovvero le due più brevi come sorta d’interludi delle tracce 1 e 3.
Si tratta di un lavoro che suscita molta meno gioia e speranza di quella che i Godspeed vorrebbero, almeno a loro dire, infondere. Piuttosto, suscita riflessione ed empatia nei confronti di un collettivo del quale si sa, da sempre, quel poco che serve sapere e che, già soltanto mostrando quanto è difficile, nell’ambiente musicale, essere considerati un unico collettivo e non singole entità creative, mette alla luce quei difetti e fallimenti della società che costituiscono il movente per questo improvviso, fondamentale ritorno.