Dimenticate il ragazzo ammiccante dietro il tirabaci ingellato, quel Hanni El Khatib non esiste più o perlomeno non esiste fra gli spartiti di Moonlight, ultimo lavoro dell’artista californiano. Lo avevamo seguito durante l’esordio al fulmicotone con Will The Guns Come Out (recensito qui su indie-eye) e eravamo un po’ trasecolati con Head in the Dirt, il sequel uscito nel 2013.
Proprio all’inizio del 2015, Hanni torna con un LP in 11 tracce dove la distanza dagli esordi garage lo-fi di Will The Guns Come Out sembra essere ormai incolmabile. Al posto dei riff sporchi e polverosi che segnavano il groove fifty di Dead Wrong, si sono sono insinuati motivetti catchy e decisamente poco nostalgici come Melt Me, influenzati da una versione edulcorata degli ZZ Top come in The Teeth e, soprattutto, una mano pesante sui ritocchi sonori dell’album.
Non parliamo solo degli arrangiamenti che tendono a smussare le spigolosità delle ballate più dirette e graffianti, ma sopratutto della manipolazione operata sulla voce tant’è che più dell’effetto da microfono Geloso che pervadeva il primo album, Moonlight sembra rincorrere moltissimo il mood di Fever dei Black Keys. E se la title track da cui è stato tratto il video di lancio dell’album sembrava preannunciare un album animato da un certo spirito zombie, dinoccolato e gibboso in accordo con l’andamento del basso, la chiusura con Two Brothers suona come un riempitivo ossessionato dalla continua ripetizione di un ritmo samba.
Detto ciò, il risultato di Moonlight è decisamene buono, pezzi come Chasin’ e Servant, segnano passaggi più che gradevoli pur andando a discapito delle peculiarità di Hanni e richiamando alla mente vecchi lavori alla Tom Waits. Moonlight è un album che cambia direzione in un periodo troppo connotato dal boom/fenomeno Black Keys per scrollarsi di dosso l’inevitabile paragone col duo dell’Ohio. Al momento, Hanni El Khatib appare un loro cugino lontano incastrato e bloccato dai dilemmi dell’adolescenza.