La nuova golden era del videoclip è questa. Un formato nuovamente al centro delle strategie promozionali, proprio in virtù dell’immaterialità con cui la promozione stessa deve fare i conti. Dissolti i supporti, se non nella rinascita dell’ambito collezionistico, il videoclip si muove come un virus intorno ai concetti e all’immagine, duellando con i nuovi canali di condivisione, inglobando storie e tecniche passate insieme a nuovi stimoli e spesso sostituendo quell’oggetto fulmineo, destinato ad un consumo veloce, che era il singolo. Più del Cd o del dodici pollici, il videoclip diffuso attraverso la rete preserva la forza di traino per una nuova produzione, ma si gioca tutto nell’istantaneità dell’evento, senza più niente di preciso da promuovere se non se stesso.
Sorprendono in questo senso tutti quei prodotti che rimangono ancorati al linguaggio catodico di venti, trenta anni fa, e che resistono alle feroci ibridazioni in corso. Tra motion graphics e portabilità, action camera e smartphone, il paese più nostalgicamente fuori tempo massimo sembra proprio l’Italia delle grandi produzioni, spesso alla ricerca di quella poeticità ancora troppo vicina ad una vecchia idea di set e di storiella.
Il coraggio di artisti come Scott Cudmore, Ninian Doff, Pretty Puke, il collettivo PANAMÆRA, Seamus Murphy, Kate Moross, è difficilmente rintracciabile nel nostro paese. Lo abbiamo scorto nei video di Factory PRD per Tribuna Ludu, nell’animazione minimale di Laurina Paperina, nel video fatto di luci e ombre realizzato da Drew Pearson (che non è italiano) per Mimes of Wine, nell’autarchia fiera di Francesca Messina (con Massimiliano Lo Sardo) aka Femina Ridens.
In tutti questi casi, i nuovi dispositivi, la bassa definizione, l’animazione digitale, scoprono un lato selvaggio e artigianale della rete e a modo loro, cercano di allungare una mano per trasformare la visione in esperienza tattile, limitando le distanze e sbarazzandosi del set come filtro ingombrante e codificato.
Non è un caso in questo senso che all’autore o al videasta riconoscibile, si affianchino sempre più spesso gli stessi artisti (Portishead, Beyonce, Rihanna, Femina Ridens, FKA Twigs, Marissa Nadler, per citarne solo alcuni) assumendo il controllo totale del risultato e spesso assolvendo tutte le funzioni tecniche e realizzative. Non importa se si tratta di una scelta autarchica o della necessità di prolungare la propria musica in direzione sinestetica; quello che conta è la veloce mutazione di un paradigma dove il videoclip diventa vero e proprio territorio compositivo, come nelle sperimentazioni più ardite degli anni ottanta, quando l’ombra, le intuizioni e la videopittura di Nam June Paik penetravano il tessuto popolare della videomusica con luci, colori, interferenze.
La Playlist dei 20 videoclip del 2016 per la redazione di Indie-eye
La nostra classifica completa, con le motivazioni, i link alle recensioni dei video e alle interviste agli artisti
- David Bowie – Lazarus – dir. Johan Renck
Ai Doppelgänger, ai vampiri, ai serial killer, al pierrot “turchese” di Ashes To Ashes che officia la cerimonia esequiale degli anni settanta, si sostituisce adesso la vecchiaia, accennata dalla crepuscolare Where are we now? e assolutamente in primo piano nelle versioni clownesche che vedono Bowie giocare con il popeye Fleischeriano nel video di Blackstar e con un Caligari stanco e a sua volta controllato come un burattino in questa nuova clip girata in 4:3, formato televisivo ottantiano per eccellenza. - Portishead – SOS
Sempre più grandi i Portishead si servono della rete con modalità completamente differenti dal circo dei Radiohead, ormai un passo indietro rispetto all’era in cui prevedevano i comportamenti connettivi (pensiamo ai Blipvertise, per esempio). In-visibili, i nostri lanciano un sasso nello stagno della sorveglianza di massa e ci tendono una mano al di là dello schermo. Who cares? - Dilly Dally – Snakehead dir. Scott Cudmore
Il video è un’elegia suburbana come molte a cui ci ha abituato Cudmore, con una serie di sottotitoli che niente hanno a che vedere con il brano, ma che sembrano raccontare il videomaking come un gioco dove non sono più ammessi lo spreco e le piccole-grandi macchine produttive che mimano il cinema industriale: “Music videos are bullshit. What a waste of time. What a waste of money” - Silverbird – Smile. Dir. Pretty Puke
Miller Rodriguez, aka Pretty Puke è un fotografo legato per lo più alla nightlife losangelina, ma in questi anni si è saputo distinguere da una serie di pseudoartisti brandizzati producendo le immagini più attinenti a quella realtà e facendo emergere la sostanza antiapologetica dell’immaginario giovanile. Vicino per certi versi a Richard Kern e ad Harmony Korine, Pretty Puke non possiede un computer ma la sua fotografia è stata spesso definita come “Tumblr photography” per il modo in cui il nostro si è servito della nota piattaforma di condivisione come veicolo principale per la sua particolare narrazione del mondo giovanile - Pj Havey – The Hope Six Demolition Project. Dir. Seamus Murphy
In questo viaggio tra l’Afghanistan, il Kosovo e Washington DC, la Harvey e Murphy sollevano delle questioni che sono ormai del tutto assenti anche in quelle pericolosissime estetiche/politiche del cambiamento, proprio perché agiscono coraggiosamente sul reale evidenziandone le ferite e le cicatrici. “Opera pubblica” quella della Harvey e di Murphy, con l’artista che condivide fuori dal perimetro ombelicale; dalle nostre parti praticamente impossibile. What will become of us all? - Tribuna Ludu – Erinni Dir. The Factory PRD
Il video è un bel mix tra cultura cinefila e sguardo soggettivo, quello dei dispositivi “corpo-a-corpo” (go pro, body camera e via dicendo) - Mai Lan – Technique – Di. Collettivo PANAMÆRA
Il collettivo ha identificato nell’estetica del “remix” una via feconda per rinnovare il concetto di “contaminazione”. Live action, motion graphics, innesti, analogico+digitale, set+inorganico. Non è da meno il bel video realizzato per Mai Lan e intitolato Technique. Seguendo l’approccio iconoclasta della figlia di Kiki Picasso, il manifesto sulle ossessioni tecnologiche e sul prolungamento dei dispositivi nello spazio sociale diventa una clip fatta di tagli veloci, innesti grafici, campioni visivi ripetuti, una performance rivoluzionata da un movimento tellurico, quello stesso del frame. - Massive Attack – Voodoo in my blood Dir.Ringan Ledwidge
Ringan Ledwidge, uno degli autori britannici più importanti nel campo dell’advertising e in parte legato all’agenzia Rattling Stick, dirige Rosamund Pike nella clip per Voodoo in my blood. Andrzej Żuławski nel sangue - Femina Ridens – L’educazione sentimentale Dir. Messina/ Lo Sardo
Francesca Messina non si fa dirigere da nessuno. È una scelta precisa che individua nel video musicale un territorio creativo più che un mero strumento di comunicazione promozionale. Non è la prima volta che utilizza il found footage e questa volta lo fa “ri-mediando” uno dei film più intensi di Jesús Franco ovvero Necronomicon – Geträumte Sünden, film prodotto nel 1968 nella Germania Ovest e conosciuto anche con i titoli di Delirium e Succubus. Il video non gioca in modo truffaldino con l’immagine, ovvero aggiungendo effetti, trasformando l’immagine e rendendola irriconoscibile. A funzionare è invece l’assonanza e la dissonanza tra musica, parola e immagine. - Mimes of Wine -Birds of a feather Dir. Drew Pearson
Luce, ombra ed un’estrema vicinanza ai corpi, quella delle nuove macchine di ripresa, nuovamente in dialogo con il concetto di Camera Stylo. Il video di Drew Pearson per Mimes of Wine è stato presentato in esclusiva lancio su indie-eye ed è un formidabile esempio di espressione poetica affidata ai principi sinestetici dell’immagine. - The White Stripes – City Lights. Dir. Michel Gondry
Il video è tra le cose più semplici e immediate di Gondry ma è pefettamente in linea con il suo stile fatto di brandelli, campioni e ripetizioni. Scremato da paraphernalia e altri gadgets è una delle cose migliori realizzate dal regista francese, in linea con la trasformazione attuale di un linguaggio da sempre anti-specifico. - Needed Me – Harmony Korine per Rihanna o viceversa?
Per chi si era immaginato che Korine scherzasse mentre metteva in bocca a James Franco l’apologia di Britney Spears, magari inventandosi qualche giustificazione post-moderna fuori tempo massimo per intortare il “lettore critico” e distanziarsi dall’esuberante energia di un testo ludicamente e orgogliosamente osceno, questo video tutto superficie e niente più e uno straordinario scaracchio in gola e ci racconta cosa siamo diventati o cosa potremmo diventare. - Olga Bell – ATA, Dir. Baku Hashimoto
Succede qualcosa al corpo di Olga Bell sulla spiaggia, sovraesposto e in bianco e nero si trasforma per poi venir letteralmente estruso verso una forma di totale astrazione. Per l’artista di origini russe si è impegnato uno dei programmatori e dei visual artist più interessanti del momento, il giapponese Baku Hashimoto, che ha applicato una tecnica 3DCG senza usare il 3D scanning ma modellando tutti gli oggetti manualmente - Blonde Redhead – Dripping – Dir. Eric Warheim (Leggi l’intervista ad Amedeo Pace dei Blonde Redhead)
Quello di Eric Warheim non è il video ufficiale per Dripping, già uscito nel dicembre 2014 per promuovere il lancio di Barragán, a tutt’oggi l’ultimo album dei Blonde Redhead. È in realtà un “fanvideo” di lusso uscito nel 2016, approvato dalla band e girato da uno degli autori più scorretti e visionari in circolazione. Warheim manda ancora una volta in cortocircuito il videoclip mainstream, sbarazzandosi di balletti e pin up e recuperando quell’aura femminista che era già chiarissima nel video violentissimo realizzato per gli Health . Se da una parte gli interni sembrano riferirsi ad una rilettura estetizzante dell’arte giapponese, dall’altra la luce, i corpi e i vestiti alludono alla distanza raggelante delle fotografie erotiche di Man Ray. Quando Tinto Brass scorgeva nel culo della Koll delle implicazioni mistiche, poteva farlo in base ad un’onestà che non è di facciata: “Il culo è più onesto della faccia, non inganna”. - Marissa Nadler – All the colors of the dark
Chissà se qualcuno se n’è accorto che l’ultimo singolo di Marissa Nadler veicolato da un videoclip realizzato dalla stessa, ha lo stesso titolo di un thriller diretto nel 1972 da Sergio Martino. Come in “Tutti i colori del buio” il contatto tra realtà e dimensione onirica è una delle intenzioni dichiarate dalla stessa Nadler: “Il mio amore per le immagini in movimento – ha detto la musicista di Washington – si sposa perfettamente con il ritmo del brano” - Run The Jewels – Love Again Dir. Ninian Doff
Prodotto dalla Pulse insieme a JASH, il canale statunitense dedicato alla commedia, è stato girato da Rod Clarke, direttore della fotografia noto per il suo lavoro nel documentario a carattere naturalistico. Più di diciassette ore di girato mettendo al centro la vita degli insetti, sopratutto api, farfalle e il corrispondente habitat floreale, che il montatore Paul O’Reilly ha trasformato insieme a Doff in quattro minuti di erotismo pulsante, cercando di associare a ciascun insetto personalità e attitudini sessuali evidenti. - Hinds – Bamboo Dir. Laurina Paperina
Illustratrice e animatrice, combina i due aspetti in un tratto che conserva la libertà e il primitivismo dei disegni infantili ai quali aggiunge un carico di violenza incendiaria - Shock Machine – Open Up The Sky Dir. Saam Farahmand
Open Up The Sky è il secondo video che Farahmand realizza per Shock Machine, il progetto dell’ex Klaxon James Righton, ed è un’evoluzione di quell’idea tutta analogica e legata alla centralità della silhouette che si staglia sul paesaggio. In questo caso la sagoma dell’artista diventa finestra attraverso la quale osservare un mondo che esplode e si incendia, quasi fosse una sintesi delle possibilità elettroniche che si affacciavano nei video musicali della fine degli anni settanta, tra tutti quelli di Bruce Gowers realizzati per i Queen e The Jacksons. Farahmand riesce ancora a legarsi alla forza del gesto con sorprendente fisicità, anche quando lavora con i nuovi mezzi digitali. - Frightened Rabbit – Get Out Dir. Greg Davenport
Per Frightened Rabbit Greg Davenport gira la splendida clip di “Get out” ambientando la coreografia di due corpi femminili che collidono nello spazio monumentale della città e utilizzando come sfondo il Crematorio, la statua “divina” della Madre Patria progettata da Yevgeny Vuchetich nel 1981, il monumento dedicato alla polizia politica sovietica nota come Čeka, l’imponente monumento circolare dedicato alla memoria della grande guerra, tutti situati a Kiev. È un’esplorazione interiore dello spazio a cui si contrappone l’esplosione di una fisicità performativa e il tentativo di superare, o al contrario opporre, una barriera affettiva. Davenport spezza la fissità dello spazio con un montaggio tattile e fisicissimo e individua un punto di rottura ai piedi degli dei, tra primato dell’azione e quello della contemplazione.