[ Foto di Francesca Pontiggia: portfolio ]
I Giardini di Mirò sono ormai una delle realtà più consolidate e creative della scena indipendente italiana; a distanza di quasi due anni dall’ultimo lavoro, arriva la loro nuova sfida la sonorizzazione de “Il Fuoco”, film del 1916, che stanno portando in tour in questo periodo. Abbiamo incontrato Jukka Riverberi, voce e chitarra (ma non solo) della band, prima della data milanese, ospitata nei suggestivi spazi della Fondazione Pomodoro. Ecco cosa ci ha raccontato.
Benvenuto su Indie-Eye. Parliamo per prima cosa del vostro concerto di stasera qui a Milano. Come tutti quelli di questo tour, sarà diviso in due parti. La prima sarà dedicata alla sonorizzazione del film di Pastrone, “Il Fuoco”. Come è nata l’idea di confrontarsi con questo tipo di performance?
La sonorizzazione è nata da un invito, che ci è stato fatto dal Museo Nazionale del Cinema. Hanno chiesto, a noi come ad altri musicisti dell’ambito indipendente, di affrontare la sonorizzazione di vecchie pellicole restaurate, facenti parte del patrimonio archivistico del museo. Quindi la cosa è partita da un loro invito esplicito; noi abbiamo visto il film, prima eravamo un po’ spaventati, poi siamo arrivati alla conclusione che si poteva fare. L’avremmo fatta comunque, ma ci siamo confortati col tempo guardando il film. Il primo impatto è stato abbastanza duro, perché è un mondo completamente diverso dal tipo di immagini e dal tipo di narrazione a cui siamo abituati. Confrontarsi con un tipo di cinema che non è semplicemente bianco e nero, ma è davvero qualcosa di diverso nell’utilizzo dei linguaggi cinematografici, non è stato semplice. Non volevamo essere troppo pesanti e presenti all’interno del film, ma non volevamo neanche rimanerne vittime: da lì abbiamo trovato le misure.
Perché avete poi scelto di editare anche come CD la vostra opera?
Noi ci siamo molto affezionati alle musiche. Tutto il lavoro su “Il Fuoco” all’inizio doveva semplicemente concludersi con l’esibizione di cui eravamo stati incaricati, da fare a Torino alla fine del 2007. Abbiamo visto che la nostra gioia e il piacere nel suonare questi 50 minuti di musica erano molto alti, così come quelli di chi ci ha seguito, che non era lo stesso pubblico che trovavamo solitamente ai concerti. Ci avevano poi detto che, dato il successo conseguito, sarebbe uscito un DVD de “Il Fuoco” con le nostre musiche. Il DVD però ha tardato a venire perché, come si può capire, chi si occupa delle ristampe di questo tipo di film dal 1916 a oggi ha avuto un po’ di anni per aspettare, quindi può attendere anche due o tre anni in più; per noi gli anni invece sono qualcosa di differente, dobbiamo confrontarci su tempi più brevi. Ci sembrava un peccato lasciarlo così, a finire nel dimenticatoio: abbiamo deciso di onorarlo mettendolo in un CD e portandolo in giro nei club e non solo nei cinema e nei teatri.
Va detto che nel vostro caso, a differenza di molte colonne sonore o sonorizzazioni, l’ascolto dei singoli brani non perde di intensità senza il video di supporto. Penso sia dovuto al fatto che già in passato avete fatto brani strumentali. E’ un’interpretazione che condividi oppure no?
Penso di sì, anche se in realtà non mi sono posto molte domande sul perché funzioni o meno. Io da sempre penso che quando la musica è “fatta bene”, cioè pensata, suonata e ragionata, col cuore e con consapevolezza, possa affrontare qualunque tipo di percorso e discorso. Credo che un po’ le ragioni stiano in questa cosa. Qualcuno potrebbe ridurre il nostro sforzo e dire “Beh, avete fatto un altro disco strumentale”. In realtà c’è stato un passaggio molto importante per noi, sugli strumenti, sul suonare e sul lavorare di nuovo di sottrazione, dopo che nell’ultimo periodo comunque eravamo arrivati a fare canzoni, molto più brevi e con tempo sempre abbastanza serrato. Quindi non è stato un tornare alle origini, c’è stato un ritagliare spazi che non usavamo nemmeno in passato. E’ stato un passaggio diverso quindi. Forse funziona perché c’è stata la maturità di dieci album in mezzo. Noi un album completamente strumentale non l’avevamo mai fatto, questa è la prima volta che facciamo cinquanta minuti di musica di questo tipo.
Oltre a questa sonorizzazione, avete mai pensato di preparare una vera e propria colonna sonora? Nel caso, con quali registi vi piacerebbe lavorare?
Noi abbiamo già lavorato ad una colonna sonora originale, di un film che purtroppo si è visto pochissimo, “Sangue – La morte non esiste” di Libero De Rienzo, che come attore ha fatto parti in “Santa Maradona”, “A/R Andata + Ritorno” ecc. Avevamo fatto la colonna sonora originale, con dei pezzi che poi abbiamo riadattato e riutilizzato da altre parti; era un lavoro che era stato fatto solo da una parte del gruppo, non da tutti. Noi lavoreremmo ancora molto volentieri col cinema, così come con il teatro: ci sembra un’opportunità importante ed interessante da esplorare, oltre a quella classica dei club; ci alletta molto perché permette di giocare su tempi e dinamiche differenti, che non sono quelle dell’album e del concerto dal vivo. Registi ce ne sono veramente tanti: sarebbe bello, naturalmente, lavorare con i più grandi, ma anche con gli scalzacani che arrivano al primo film e ne fanno uno fantastico. Sarebbe bello lavorare su una bella pellicola che ha ancora qualcosa da dire e non è facile. In Italia verrebbe quasi automatico dire Sorrentino o Garrone, ma anche Mazzacurati. In realtà ce ne sono tanti da citare. Anche se fosse un invito estero poi non sarebbe male, ovviamente. Speriamo che in futuro ci sia davvero la possibilità.
La seconda parte del concerto verte invece su brani non legati a “Il Fuoco”. Tra questi ci saranno anche degli inediti; cosa dobbiamo aspettarci da questi ultimi? La continuazione del discorso iniziato con “Dividing Opinions” o si sentirà l’influenza dell’ultimo lavoro?
Credo che sia “Dividing Opinions” rivisto sotto la luce de “Il Fuoco” a generare qualcos’altro. In ogni nostro disco c’è stato un passaggio che ha comunque marcato uno scarto rispetto al lavoro precedente, nella continuità abbiamo sempre aggiunto qualche piccola parte differente. Era stato così tra “Rise and Fall” e “Punk, Not Diet”, così come tra quest’ultimo e “Dividing Opinions”; “Il Fuoco” è stato quello che ha fatto lo scarto maggiore rispetto al lavoro precedente, ma arriva da un percorso differente rispetto agli altri, un percorso lineare per quanto riguarda la nostra carriera, ma non dal punto di vista degli album, su cui si innesta e per forza cambia quello che c’è dopo. I pezzi nuovi sono abbastanza differenti da quelli di “Dividing Opinions”, ma non sono nemmeno identici a “Il Fuoco”, si sente che sono stati fatti entrambi i lavori, anche perché continuiamo a cantare; al momento non abbiamo scritto brani strumentali per il prossimo disco e il coraggio per farlo l’abbiamo preso con “Dividing Opinions”, senza quel passaggio probabilmente sarebbe finito il gruppo. Per quanto riguarda il concerto di oggi dobbiamo tenere conto dell’acustica particolare che c’è qui alla Fondazione Pomodoro, quindi la scaletta e i brani dovranno adattarsi a questo. Ultimamente facciamo anche un set per così dire “acustico”, perché non lo è al 100%, ma è comunque più contenuto; l’abbiamo fatto a Radio Popolare e a Città del Capo a Bologna.
Ricollegandosi al discorso sul CD, “Il Fuoco” è uscito per la Unhip, anche perché la Homesleep aveva problemi e ha chiuso. Non è stata l’unica etichetta ad aver avuto problemi ultimamente (es. My Honey). Qual è la vostra idea sulla crisi del mercato discografico? Avete qualche idea su come fronteggiarla?
Io non ho idee in questo senso; l’unica cosa che posso dirti come musicista è che, con i miei compagni, devo continuare a lavorare sulla musica, perché i gruppi bravi stanno continuando ad andare in giro a suonare, a fare tour, ad avere gente ai loro concerti, ed è questa la cosa che a noi deve interessare. Purtroppo dal supporto disco non riusciamo più ad avere soldi, dico purtroppo perché era importante per avere fondi da poter reinvestire sulla musica e sul proprio tempo, per poterne dedicare di più alla musica. Dobbiamo modificare le nostre abitudini nuovamente; fortunatamente c’eravamo già attrezzati, noi lavoriamo tutti quanti. Non ci consideriamo musicisti part-time; o meglio, part-time sì, ma non hobbisti; ci mettiamo la serietà che tutti dovrebbero mettere quando decidono di portare avanti un gruppo, di andare a suonare davanti ad altre persone, di incidere dei dischi. Questa è l’unica cosa che dobbiamo fare. Dobbiamo poi cercare di riallacciare e creare contatti internazionali con altri artisti, come abbiamo sempre fatto, anche se negli ultimi anni ci siamo forse un po’ stancati delle vecchie abitudini. Le riprenderemo senza problemi però, conosciamo molti artisti e credo che troveremo supporto per lavorare. Stiamo guardando, con qualche contatto positivo, per licenziare il disco per etichette estere e recuperare la Germania, che era rimasta scoperta per gli ultimi due dischi ed invece per noi è una nazione molto importante, come mercato ma anche come bacino di gente che ci segue. Sulla crisi delle etichette c’è un fattore che è generalizzato, non stanno male solo le indipendenti, stanno male tutte le label, quindi secondo me la grossa crepa è dal punto di vista culturale. Devo dire che le etichette indipendenti, in generale, soffrono di una cattivissima gestione, fatta dagli anni 2000 in poi; quando hanno iniziato a girare i soldi, dagli anni ’90, hanno iniziato a ragionare come delle piccolissime major. Già le major sono state viziate da una cecità che le portava a lavorare sui grandi numeri, provando tanti artisti per avere comunque dei rientri; penso che invece un’indipendente non possa lavorare in quel modo. Molte etichette piccole hanno buttato fuori cinquanta dischi in un anno senza misurare la qualità. Credo che ci debba essere una grossa differenza tra mercato indipendente e mercato major, nelle pratiche, nelle aspettative e nella cultura di base che c’è. Questa si era appiattita, e si è appiattita anche dal punto di vista della politica, in cui il mercato, dagli anni ’90 in poi, ha deciso tutto quanto: era quello che regolava la bontà di un progetto piuttosto che di un altro. Si è rivelato una grossa cazzata; penso che nella musica la crisi si sia vista qualche anno prima, ci ha detto che quel modo di ragionare era una bufala e portava veramente male.
Hai già parlato della scena tedesca, a cui siete particolarmente legati, con amicizie e collaborazioni varie, come quella con Apparat, per fare uno dei nomi più grossi. Cosa vi affascina di quella scena e cosa vi avvicina ad essa?
A me hanno insegnato quando ero bimbo a chiamare i tedeschi “i tognini”, perché erano sempre i nostri avversari negli sport. Utilizzando però altre espressioni del mio dialetto che si avvicinano a “tognini”, si dà l’idea di gente decisa, che continua sempre, sta sul pezzo, non molla mai. Quello che mi piace dei tedeschi, a differenza degli italiani, è che hanno sempre cercato una loro via alla musica. È appena uscito un documentario molto bello per la BBC, che si chiama “Krautrock” e parla di una generazione di musicisti che hanno segnato la musica mondiale. Secondo me in Italia abbiamo avuto qualche esperienza simile, ma non siamo capaci di capirlo, ce lo devono venire a spiegare gli altri. Là invece sono riusciti a lavorare su una scena autoctona, su un tipo di proposta che fosse tedesca; lì la musica elettronica ha fatto la differenza, non il rock. Noi abbiamo avuto anche quello, ma non siamo capaci di valutarlo nel modo corretto. La Germania è una nazione che ha creduto in se stessa, con tutte le contraddizioni che la sua storia porta dentro di sé. A me non interessa la fierezza della nazione, che non c’è assolutamente in ciò di cui parlo; nei musicisti tedeschi c’è invece una voglia di dare un’immagine nuova del posto dove stavano attraverso la musica. Noi non siamo stati capaci invece. Mi è piaciuto chi da una posizione che è terza, quasi da outsider, ha sfidato gli altri mercati, fregandosene degli americani e degli inglesi, dicendo “ci siamo anche noi”.
Che importanza hanno i progetti solisti o comunque esterni al gruppo che più o meno tutti portate avanti? Hanno influenza su ciò che poi fate come Giardini di Mirò o sono valvole di sfogo per fare qualcosa che difficilmente si potrebbe fare con la band?
Sono tutte e due le cose, perché in realtà fai cose che con la band non puoi fare, ma una piccola parte la riporti indietro, la riporti a casa. Sono tutte cose molto salutari, in quanto sia sono una valvola di sfogo, sia ti fanno provare cose che, anche se in modo minimale, puoi integrare nel discorso che portiamo avanti come Giardini. Quindi in realtà sono dei toccasana. A volte possono essere disturbanti, perché sono impegni che entrano in conflitto; abbiamo una vita già molto impegnata, ci sono i Giardini che comunque portano via tempo, passione e tantissime energie, c’è il lavoro, c’è il vivere con le proprie famiglie che ormai stanno crescendo e tutto il resto. È chiaro che incastrare un altro progetto è difficile, ma se non vogliamo ragionare sul breve periodo, bensì su quello lungo, sono una ricchezza assoluta per il gruppo, per cui va benissimo sacrificarsi per farli.
Cosa ascoltano oggi i Giardini di Mirò? Avete un “disco dell’anno”?
È una bella domanda… I gusti non sono più una roba di famiglia come era una volta, quando tutti ascoltavamo la stessa cosa e ci passavamo i dischi. Ormai siamo molto autonomi, divoriamo tantissima musica e credo non sia più possibile trovare qualcosa che valga per tutti. Questo è stato sicuramente un passaggio importante, non puoi più dire quali sono i dieci dischi che abbiamo ascoltato tutti quest’anno. C’è chi è più attento alle proposte della musica del mondo, del jazz, del blues o dell’avanguardia, come Emanuele, che suona la tromba e il violino; Corrado invece è un po’ più addentro a tutto ciò che ha una vena autoriale/cantautoriale o al rock con un’impronta d’autore molto forte; Luca, il tastierista, procede nei suoi ascolti di musica new wave e di alcune cose legate alla classica contemporanea; Francesco, avendo uno studio e tante collaborazioni, ascolta tantissima elettronica primitiva, esperienze d’avanguardia, i primi esperimenti dei laboratori radiofonici sia della BBC che italiani, oltre alle colonne sonore, perché ha lavorato tanto in quel settore; io ascolto un po’ roba nuova, un po’ roba vecchia. Insomma, ci piace cibarci di tantissime cose, quindi sarebbe difficile citare un disco che è piaciuto a tutti quanti, i sei che siamo sul palco e gli otto sul furgone.
Chi eleggereste invece come rockstar dell’anno? Non credo condividiate la scelta di Rolling Stone…
Non so proprio cosa dire; la risposta che posso dare è che a me il rock è sempre piaciuto dal punto di vista musicale, ma come stile di vita non mi interessa proprio, quindi…
I GIARDINI DI MIRO’ PUOI VEDERLI ANCORA DAL VIVO, CON IL FUOCO NELLE SEGUENTI CITTA’
12/12/2009 – Conegliano Veneto – Zion Rock Club
09/01/2009 – Roma – Circolo degli Artisti
16/01/2009 – Firenze – Auditorium Flog
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