Solitamente quando il primo disco è la rivelazione e il secondo è il botto, il terzo rappresenta la definitiva conferma o il rischio di fucilazione. Il Teatro degli Orrori, due anni fa, ha avuto tanti, indiscutibili meriti. Ha realizzato uno dei dischi più importanti degli ultimi quindici anni, almeno a livello nazionale; ha riportato folle intere ai concerti, in un momento storico in cui la cultura del live in Italia iniziava a cedere, senza scendere a compromessi consolatori, fondendo un arrembante massacro sonoro con una marcata sensibilità autoriale e toccando picchi di autentica disperazione esistenziale; ha ridato vita a quello che potremmo chiamare “rock civile”, che si è fatto portavoce di temi socialmente rilevanti; ha rinfrescato la figura del performer e del frontman, ruolo in cui Pierpaolo Capovilla si è calato con coinvolgimento ed immedesimazione pressoché totali.
Il meritato successo, in un Paese in cui si è sempre pronti a sparare prima di chiedere spiegazioni, ha ovviamente comportato che: 1) del terzo disco del Teatro si dovesse per forza sapere già tutto un mese prima della sua uscita; 2) “doveva” per forza, quantomeno, essere bello come il suo precedente; 3) “doveva” trattare di quello che pubblico e critica si aspettavano. Cercando di astrarci per un momento dalle assai pretestuose polemiche nate soprattutto sul web, possiamo tratteggiare alcuni punti fermi.
Il primo: è vero che Il mondo nuovo non è un disco all’altezza di A sangue freddo, ma è altrettanto vero che l’intensità dolorosa dell’insieme e la compattezza artistica di quel lavoro rimangono difficilmente superabili. Il secondo: non risulta legge scritta che imponga che un gruppo sia condannato a scrivere capolavori (di autori dei quali, peraltro, l’Italia non pullula). Esistono anche dischi medi, di passaggio, bruttini, incompleti ed incompresi. In realtà, quello che Il mondo nuovo suggerisce è che il gruppo stia attraversando al momento una fase di transizione e di avventura verso, per l’appunto, un “mondo nuovo” sotto il profilo sonoro, al quale si accosta con indubbio coraggio.
Coraggiosa è anche la scelta di affrontare un tema, invero non nuovo, come quello dell’immigrazione e dell’annullamento della condizione umana sia dello straniero che dell’essere umano in generale, fotografandolo in una pluralità di ritratti o microstorie. Addirittura il disco doveva intitolarsi Storia di un immigrato, di chiara memoria deandreiana, scelta rifuggita in un secondo momento in un sopravvenuto dichiarato sussulto di pudore nei confronti del cantautore genovese.
Il viaggio parte comunque da lontano e attraversa un’interessante struttura tripartita che suddivide il disco. La prima parte, composta dal trittico di partenza che funge da prologo, è puro Teatro, com’è universalmente conosciuto. Drumming aggressivo ed incessante scuola Shellac, basso distorto, giri di chitarra tagliente che si avvolgono su se stessi, grande squarcio sul ritornello e voce di Capovilla che alterna al consueto stentoreo recitato aperture melodiche. Il testo di Rivendico suona come un’autentica dichiarazione di intenti, come a marcare il territorio, il singolo Io cerco te (inframezzato da indovinate chitarre surf e da un fingerpicking sicuramente memore della recente produzione solista di Gionata Mirai) mira a riecheggiare il tiro dei singoli del passato, pur non possedendone il medesimo impatto, seguito dalla cassa dritta di Non vedo l’ora.
La parte centrale, nella quale inizia la narrazione vera e propria, è invece la sintesi del nuovo percorso sonoro della band, in parte affine alla scelta intrapresa a suo tempo dai CCCP di Epica Etica Etnica Pathos. Alla stessa stregua di Ferretti e soci, Il Teatro piega le sonorità etniche al proprio sound e non viceversa, abituando via via l’orecchio al cambio di colori e di atmosfere e facilitando così la contaminazione. Avviene nelle influenze senegalesi di Stati Uniti d’Africa e nelle suggestioni mediorientali di Cleveland – Baghdad, liricamente uno dei pezzi migliori e più visionari del disco, mentre nella successiva Martino (ottima) ricompare il Capovilla più icastico e ghignante (quello di Mai dire mai).
A sancire il giro di boa provvede Cuore d’oceano, probabile secondo singolo e indubbiamente una delle vette dell’album. Non deve essere un caso se un brano posto proprio nel mezzo del disco narri di una traversata, di un percorso di migrazione doppiamente rovesciato: la migrazione è quella dell’uomo occidentale verso “l’America del Nord”, come ad indicare che questo fenomeno riguarda tutti, e non è l’Uomo a tuffarsi nel mare bensì il contrario. Il tutto reso attraverso una ritmica ad ondate, autenticamente evocativa e travolgente, con l’efficace contributo degli Aucan e gli interventi del rap terzinato di un sorprendente Caparezza, mai così “cattivo” ed incalzante.
La marea si placa improvvisamente e il disco si ripiega improvvisamente, con il doloroso e commosso ritratto acustico, impreziosito da cori e archi sintetici, dell’operaio rumeno Ion, bruciato vivo dal suo datore di lavoro, con le elegie di Monica e Pablo e l’incedere mesto di Nicolaj, mentre Dimmi addio rappresenta forse l’unico momento di “distensione” del racconto, con un bello scarto fra la cupezza raccolta della strofa à la Nine Inch Nails e lo squarcio solare e commosso del ritornello, sulla falsariga di È colpa mia.
L’epilogo di chiusura si snoda attraverso una (superflua) rivisitazione di Doris degli Shellac, la riuscita virata granguignolesca di Adrian e la rassegnata chiusura in chiave elettronica di Vivere e morire a Treviso, quasi un rimando post moderno ai Massimo Volume (peraltro Pilia e Sommacal sono ospiti altrove), per un totale di oltre settanta minuti di musica.
È indubbio che il gruppo si sia voluto prendere più di un rischio, conscio di poter incorrere anche in un passo falso. Ed è altrettanto indubbio è che l’insieme gira meglio quando la band alza il ritmo e imbraccia il mitra che non quando ammorbidisce il tono con un utilizzo marcato di elettronica e archi.
Sembra però che la scelta di un tema nobile e comunque ostico quale la migrazione vista come smarrimento e definitiva perdita della condizione umana abbia spinto la band ad imporsi un approccio più composto e dimesso, che scontenterà (o forse lo ha già fatto) più di un fan del gruppo.
Scelta comunque condivisibile, che avrebbe trovato, però, piena realizzazione sfrondando certi eccessi elegiaci nelle liriche e qualche rischio di lirismo a tutti i costi negli arrangiamenti dei pezzi più intimisti. In più di un momento, anche nei pezzi più tirati, si avverte la mancanza della ferocia dei lavori precedenti e il Capovilla cantante (le melodie sono ben più presenti) è convincente quasi quanto il Capovilla “attore” e “interprete”, ma risulta inevitabilmente meno toccante di quando affrontava di petto i propri drammi personali.
Non spaventi la durata fluviale: necessaria ai fini di una narrazione completa di ciascuna “microstoria”, permette al gruppo di perlustrare territori e “mondi nuovi” a loro inusuali, pur fra le luci e le ombre di un insieme sì imperfetto, ma con momenti intensi e suggestivi.