Esplicativo fin dal titolo scelto per il suo secondo album, il nostro King Salami: Cookin’ Up A Party, “cuciniamo una festa”, è il proposito molto Benedetta Parodi del cantante inglese, ancora una volta accompagnato da quei pazzi scatenati dei Cumberland Three.
Musica concepita per essere suonata dal vivo e con il comandamento “fun” sempre ben scolpito nelle teste di ogni singolo musicista, piede piantato sull’acceleratore con la ferma intenzione di non rallentare mai il carrozzone rythm and blues – garage – soul – rock’n’roll ed anzi spingerlo sempre più giù a rotta di collo, in eterna collisione con qualsiasi cosa o suono che possa vagamente ricordare introspezione o malinconia. Musica per festaioli impenitenti, insomma. Roba che Bo Diddley faceva già decine e decine di anni fa, accordi che sono rimasti sempre quelli, arricchiti con un sax selvatico ed arrapato qua, una chitarra jingle jangle là, un contrabbasso stuprato più avanti. Energia, ritmo, una irrefrenabile vitalità che contagia ben presto chi se ne avvicina: ovvio che sapete ciò che aspettarvi, ovvio che non dovete chiedere nulla di più.
La band londinese (tutti musicisti tecnicamente preparatissimi, tra l’altro) arricchisce la piccantissima zuppa con dosi ben centellinate di anfetaminica tropicalia, sprigionando un’attitudine selvaggia da vecchi solchi Crypt e Norton Records (in alcuni momenti i Cumberland Three sembrano veramente la versione 2013 degli A-Bones), un rituale che si fa orgia selvaggia ottusa e amorale, King Salami sommo sacerdote pagano scavezzacollo e birbaccione.
Impossibile citare un brano più che un altro, impossibile segnalare momenti salienti: sono 35 minuti di suoni pelvici groovey e scorticati, da accettare incondizionatamente o da ripudiare altrettanto fermamente in nome di una concezione della musica che abbia intenti maggiormente aulici e profondi.