Le Strisce sono un quintetto napoletano, giovane ma con le idee molto chiare e con tanta fiducia nei propri mezzi. Abbiamo incontrato Davide (voce) e Andrea (chitarra) in occasione dell’uscita di “Torna ricco e famoso”, il loro primo LP, parlando di Napoli, Inghilterra e musica di ieri ed oggi.
Uno dei brani sul vostro primo EP era “Fare il cantante”. Direi che ci siete riusciti, con l’uscita di questo album. Potete ricordarci le tappe più importanti che hanno portato fino alla realizzazione del “fatidico” primo disco?
Innanzitutto c’è stato un super-spam generale su myspace o tramite mail e telefonate ai discografici; abbiamo fatto un bombardamento virale, siamo stati un virus che ha infettato la rete. Prima ancora di aver registrato dei demo contattavamo chiunque per dire semplicemente che esistevamo e che stavamo per tirare fuori qualcosa; lasciavamo messaggi d’amore ai discografici, cose del tipo “Ti amo, richiamami”. Abbiamo avuto anche questioni con dei rapper, che poi ci minacciavano di morte, anche se ora fortunatamente siamo diventati amici. Quindi è stata prima un’operazione di spam, dopodiché qualcuno ci nota, un po’ di etichette discografiche si accorgono di noi, facciamo un po’ di colloqui a Milano e decidiamo di firmare con la EMI, che ci sembrava la più interessata e convinta. Poi è arrivato il primo EP, a giugno 2008, seguito da tanta tanta gavetta, tanto lavoro sullo scrivere canzoni, cercare di suonare e di darsi da fare: testa bassa e lavorare su qualsiasi cosa. Ad oggi abbiamo circa 100 canzoni, oltre a quelle del disco; fortunatamente quello che ti premia sempre in questo mondo sono le canzoni, se non hai quelle non vai da nessuna parte, se non riesci a scriverle hai vita breve. Tornando al disco, abbiamo finito le sue registrazioni a luglio dell’anno scorso, poi abbiamo dovuto attendere i tempi discografici e le priorità dell’etichetta, cosa a cui non eravamo pronti e che non ci aspettavamo così. Alla fine però ce l’abbiamo fatta.
Com’è stato lavorare sul disco intero? Avete concepito il disco come qualcosa di unitario o un pezzo alla volta?
Semplicemente avevamo tanti pezzi e abbiamo scelto quelli che ci piacevano di più. Non è un concept album, non sono pezzi studiati a tavolino per fare un disco di un certo tipo. Ci piace definirlo un contenitore di singoli, è stato il frutto di una scrematura da 50-60 canzoni; pensiamo di aver fatto questa selezione in base alla qualità delle canzoni. Pensiamo che queste dodici siano le migliori tra quelle che avevamo fatto in quel periodo.
I vostri brani hanno quasi tutti delle chiare influenze brit. I testi sono però in italiano. Come mai questa scelta, che in Italia nel vostro genere fanno davvero in pochi?
Fondamentalmente nasce dalla passione. A me piace tanto scrivere, anche al di là delle canzoni mi piace proprio raccontare quello che vedo, osservare quello che accade, raccontare i pensieri, per ricordare di avere visto e vissuto quei momenti. Cantare in italiano diventa una cosa molto più stimolante per una persona che ama scrivere, perché l’italiano è una lingua fantastica, con la sua complessità; è molto più complicato esprimere concetti e farli suonare metricamente giusti in delle canzoni con un andamento un po’ più veloce, un po’ più brit. Con l’inglese è più facile invece, anche perché una parola può voler dire trecento cose. Mi piace definire sia il modo di cantare che il modo di scrivere delle Strisce decisamente artigianale, nel senso di avere uno stile identificabile, sia di scrittura che vocale. Penso, non per velleità da superuomo, che sia difficile coverizzare le Strisce, cioè cantare o scrivere nello stesso modo, è un lavoro molto artigianale, difficile da rivedere, per cui sono contento dei risultati che stiamo ottenendo.
Credo che ci siano alcune influenze brit anche nei testi, specialmente nel tocco ironico che c’è quando si parla di temi legati all’adolescenza o al mondo della musica. È così? Vi siete rivolti all’Inghilterra perché in Italia spesso ci si prende troppo sul serio?
È così. Fondamentalmente in Inghilterra danno più spazio ai giovani, è molto più facile per chi ha 18, 20, 25 anni avere la possibilità di raccontare il proprio mondo e la propria generazione, che è quello a cui ambiamo noi. È più facile che ci siano gruppi, come gli Arctic Monkeys ad esempio, che raccontano storie di strada o comunque di ragazzi di vent’anni, quello che vivono loro e quello che potrebbe vivere qualunque ragazzo della loro età. Noi cerchiamo di fare questo, perché in Italia manca un gruppo di ventenni, che racconti la generazione di oggi e ciò che vive, dal problema di dover studiare al problema di non riuscire a suonare a quello di non trovare lavoro, le storie con le ragazze e altro. Noi vogliamo raccontare cose che siano vere, toccabili con mano da chiunque ascolti una nostra canzone.