Sui Liars è possibile leggere uno speciale in cinque parti scritto da Federico Fragasso, ecco i link per leggere la versione completa:
Quel che affascina di un gruppo come i Liars è la continua capacità di cambiar pelle, caratteristica che si riflette anche sulle performance dal vivo e che rende i loro concerti un’esperienza sempre nuova ed elettrizzante. Durante il tour di Drum is not Dead la scaletta si concentrava sui due album più avventurosi ed iconoclasti della loro carriera, cosicché l’attitudine noise e le percussioni selvagge la facevano da padrone. I nostri riuscirono nell’intento di ribaltare la concezione che il pubblico aveva del punk-funk: da musica di tendenza per aristocratici indie a danza tribale per moderni trogloditi. La promozione di Liars aveva permesso ai tre (+1) di cimentarsi con la forma canzone, sebbene la formazione ristretta rendesse difficile riproporre live i pezzi più pop, che soffrivano di una certa carenza di compattezza. Di conseguenza, era lecito chiedersi come i nostri avrebbero potuto presentare dal vivo i brani dell’ultimo Sisterworld, ad oggi il lavoro più curato della band, sia a livello di suoni che di strumentazione impiegata. L’attenzione ai dettagli, le numerose sovraincisioni, la forte presenza delle tastiere imponevano dei limiti difficilmente superabili per una formazione a tre, e forse persino a quattro elementi. E infatti, all’Init di Roma i nostri si presentano in cinque (!), coadiuvati da bassista e chitarrista dei Fol Chen – interessante gruppo di apertura – e con il palco letteralmente invaso da attrezzature di ogni tipo: microfoni ovunque, campionatori, mixer, due tastiere, bassi, chitarre e uno strano aggeggio tramite cui, scopriremo in seguito, il cantante modifica la propria voce con effetti allucinanti. L’apertura è affidata ai ritmi ipnotici di A Visit from Drum. Mentre i compagni percuotono incessantemente i tamburi, Angus Andrew entra in scena con piglio teatrale: altissimo, allampanato, barba e capelli allo stato brado, osserva la platea con occhi allucinati. È inevitabile constatare come il frontman dei Liars sia un uomo irrimediabilmente perso nella propria traiettoria lisergica. Un personaggio che, tanto per capirsi, sente il bisogno di comunicare al pubblico quanto lo destabilizzi la vista degli “enormi cani romani”. D’altronde sembra proprio l’attitudine al doping l’elemento che gli permette di scrivere pezzi caratterizzati da atmosfere ipnotiche tanto intense. E dunque ben venga. La formazione a cinque elementi consente al gruppo di affrontare la complessità strumentale dei pezzi tratti dall’ultimo lavoro: esempio lampante il singolo Scissor, che parte con trame stratificate di testiera per poi esplodere in un riff selvaggio, scatenando la violenta reazione del pubblico. Due estremi all’interno dei quali il suono della band si muove per tutta la durata del concerto. Pezzi atmosferici si alternano a sfuriate noise, in cui la trance viene riletta secondo un’ottica prettamente punk rock. E così il pubblico si ritrova ad ondeggiare in una nuvola d’acido su We fenced other gardens with the bones of our own o Sailing to Bysantium, per poi pogare su Plaster Casts of Everything o le più recenti Scarecrows on a killer slant e The Overachievers. La prova che i Liars siano ormai delle piccole star underground è confermata dal coro con cui la platea accompagna la ballata The Other Side of Mt. Heart Attack: persino Angus sorride soddisfatto e, se non mancassero gli accendini, sembrerebbe proprio di trovarsi all’interno di uno stadio. Una gradita sorpresa per i fan della prima ora arriva quando i nostri si lanciano in una trascinante versione di The garden was crowded and outside, brano tratto dall’esordio They put us all in a trench and stuck a monument on top. Dato il cambio di formazione tra primo e secondo album e le drammatiche evoluzioni stilistiche affrontate nel corso del tempo, sembrava quasi che i nostri avessero ripudiato la loro prima fase, mai proposta dal vivo in anni recenti. La presenza di un vero bassista in formazione permette al gruppo di riappropriarsi in toto del proprio retaggio musicale: il brano funziona alla grande, e si inserisce all’interno di un percorso artistico molto più coerente di quel che si potrebbe immaginare. In chiusura la splendida Proud Evolution, ad oggi uno dei pezzi più riusciti e maturi dei nostri, indicativo – neanche a farlo apposta – di un’evoluzione durata un decennio. Ovviamente la folla non si placa, tanto che i nostri sono costretti a guadagnare nuovamente il palco, stavolta nella classica formazione a tre. Il beat techno-punk di Brocken Witch non fa prigionieri e scatena nel pubblico un’euforia orgiastica, difficile da ricondurre nei ranghi una volta che il gruppo ha definitivamente abbandonato le scene. Tanto di cappello, anche questa volta i Liars ci hanno fatti neri.