lunedì, Dicembre 23, 2024

Linda Perhacs – “The Soul Of All Natural Things”: al cuore di tutte le cose

Oltre che autore di score epocali tanto per Kubrick (Barry Lyndon) che per Kazan (La Valle Dell’Eden) o, addirittura, Bakshi (Il Signore Degli Anelli), Leonard Rosenman ebbe il pregio di riconoscere nella propria dentista l’immensa cantautrice che realmente era. Fu grazie a lui che Linda Perhacs ebbe la possibilità di trasporre su supporto fonografico quelle composizioni leggere come rugiada che presero il nome di Parallelograms, portandosi dal 1970 in poi come invisibili preziose reliquie di un tempo trascorso, eternamente presentificabili, di un sentire sensibile di grazia adamantina, trasparenza lisergica e scrittura esemplare. Celato per anni dietro lo status di opera cultuale, Palellolagrams, ebbe la fortuna di un’autentica rifioritura, con le numerose ristampe in CD e vinile dei 2000, che riportarono il nome di Perhacs a circolare tra gli addetti ai lavori, al punto da ritrovare, prima, un sample esteso di Chimacum Rain in un brano, invero piuttosto volgare, di Prefuse 73 (semmai potesse esserci qualcuno di più distante dal suo personale universo) e poi, la sua stessa voce ospite di un più affine, se non uno tra i tanti nipoti illegittimi, Devendra Banhart in Smokey Roll Down Thunder Canyon. Da allora, le lusinghe discografiche di chi pretendeva un seguito a quell’unico atto sonoro, si ripeterono insistenti sino a richiamare la signora dalla sua lunga intima quiete, convincendola, oggi, a ridonare il suo vibrato al mondo intero.

E quando The Soul Of All Natural Things muove dal fondo per raggiungerti il cuore, parrebbe che non un giorno sia trascorso in quelle corde, che ancora trasportano, tali e quali, in una dimensione così sospesa, così altera, da disorientare. Poco importa che la produzione non si mantenga sobria per come dovrebbe e le aperture latine appesantiscano un brano che avrebbe la leggerezza di un zeffiro, perché di lì ad una traccia (Children) tutto il suo spazio poetico si dischiude tra arpeggi, archetti e tasti di piano, intrecciandosi su se stesso e sui propri accordi sviluppando una sequenza sempre mutevole, sempre toccante. River Of God è un sovrapporsi di piani vocali; così come Intensity, che in virtù di Julia Holter, traduce in pop quella stessa levità serena che Freely e Prisms Of Glass stendono sino a trasparire in controluce. Fin quando l’elegiaca messa panteista, fatta ancora d’intrecci di voci e reverse che hanno lo stigma della levità, di Song Of The Planet, riconduce a quello stesso altrove impalpabile dal quale proviene.

Il miracolo epifanico di Parallelograms non si ripeterà mai più, è certo, ma con quest’altra, inattesa, riapparizione, la cara Linda imperla questo mondo ostile di riflessi quieti e dolci; bucolici e post hippy quanto basta. Un dono così prezioso, così sensibile, che quasi ci si augura che non abbia mai un seguito: che rimanga lì in eterno, a chiusura di un cerchio rimasto aperto per troppo, troppo, tempo.

Alessio Bosco
Alessio Bosco
Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.

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