Il cantore del blues moderno torna con un lavoro interamente a suo nome, dopo anni spesi a collaborare in svariati progetti (Solusavers, Isobell Campbell, Gutter Twins insieme a Greg Dulli). Blues Funeral: il titolo dell’album lascia intendere un ritorno alle radici della musica del diavolo, suonata col piglio di chi veste un abito nero per dare l’ultimo saluto ad un parente/amico, quindi non il massimo dell’allegria; ovviamente, niente di più sbagliato. Il blues di cui questo disco è pregno – e non poteva essere altrimenti – è insospettabilmente ibridato con l’elettronica, con pattern ritmici che in alcuni momenti sfiorano la dance, con loop ed effetti cari a best seller come Depeche Mode e compagnia sintetica. Per gli amanti delle definizioni, un synth elettro-blues lievemente sporcato dall’industrial, per un risultato finale che si lascia indubbiamente apprezzare per le intenzioni – anche se va detto che proprio con i Soul Savers il nostro aveva già sperimentato certe soluzioni – ed anche, se non sempre, per la qualità musicale dell’insieme. L’incedere Reznoriano che apre il lavoro (The Gravedigger’s Song) è sicuramente una delle cose più riuscite, ed in generale i primi brani in scaletta (il refrain accattivante della fangosa Bleeding Muddy Waters, il tiro pop con chitarra riverberata di Gray Goes Black, lo sciamanesimo in salsa Portishead di St Louis Elegy) sono quelli in cui la verve del nostro riesce a focalizzarsi alla perfezione centrando ripetutamente il bersaglio. Più avanti assistiamo ad un paio di scivoloni (il rocketto inoffensivo di Riot In My House e Ode To Sad Disco, dove Lanegan si spinge forse troppo oltre) e ad un numero hard rock tra Cult e Billy Idol (Quiver Syndrome). Prima del commiato ci sono da apprezzare ancora un bel paio di gemme, come Phantasmagoria Blues e Deep Black Vanishing Train, forse le cose più vicine al suo vecchio repertorio. In Blues Funeral si respira aria di positività, nonostante le tematiche trattate nei testi siano tutt’altro che gaie, come è nell’uso del personaggio: sono molti i momenti catchy, le canzoni hanno spesso ritornelli che si fanno subito ricordare, il disco scivola via che è una meraviglia, dando la sensazione che il buon Mark si sia divertito parecchio nel farlo. E noi nell’ascoltarlo.