Con una bella copertina fotografata dal bravo Marco Quinti, autore di un reportage concettuale realizzato per gli stessi Miriam In Siberia e costituito da scatti che catturano la distonia tra natura e industria, la band campana torna all’heavy doom degli esordi ma con una maggiore apertura verso quella psichedelia satura e dronica che si inscrive perfettamente sulla scia della nuova ondata psych tra Canada e Stati Uniti, complice anche la scelta di adottare completamente la lingua inglese per la composizione del nuovo lavoro.
Al muro fuzz che avvolge tutti i brani si aggiunge, per contrasto, la seduzione dell’hammond e una struttura spiraliforme e minimale che ricorda quasi i primi Loop, anche per una questione di durata media dei brani che si assesta tra i cinque e i sette minuti. Ma rispetto ai modelli di riferimento, i Miriam in Siberia preferiscono le cavalcate seventies, il lento scivolamento nell’elettricità del Neil Young di Zuma, in una parola, la “visione” all’ancoraggio del groove; ascoltate Don’t Anyone, il brano forse più potente di tutto il lotto, melodico e aereo nella prima parte, potentissimo e inesorabile nella lunga sezione centrale. Considerata la notevole esperienza live del combo, non resta che goderseli su un palco con questa nuova e ottima setlist.