I Motorpsycho sono stati forse la miglior band degli anni ’90. Cominciamo così, tanto per far capire di chi e cosa parliamo: ovvero, una creatura partita come mostruosa macchina da guerra macinante pesantissimi riff heavy psych stoner d’ignoranza sublime nei letali Lobotomizer e Demon Box. Già in quest’ultimo a dire il vero si avvertivano i primi semi che avrebbero germogliato in seguito: aperture acid folk, tiro più indie rock, chitarre trattate come le sapevano trattare, all’epoca, gente come J Mascis e Stephen Malkmus. A metà anni ’90 quindi il suono si “americanizza” un pochino, regalandoci capolavori indiscussi come Timothy’s Monster, Trust Us e Angels And Daemons At Play, ed ottimi lavori come Blissard. Nei primi due soprattutto – entrambi doppi album, a dimostrazione dell’esasperata prolificità del gruppo, caratteristica che non sarebbe mai scemata nel tempo, basti solo pensare allo sterminato esercito di EP licenziati nel corso della loro carriera – l’elemento psichedelico si fa pregnante, quasi paradigmatico del loro sound, se volessimo esprimerci come quei critici colti ed intellettuali di cui è pieno il web. Ma noi siamo pane al pane e vino al vino, e vi basti sapere che i Motorpsycho a metà anni ’90 erano la miglior rappresentazione del rock psichedelico sulla scena musicale europea ed americana. Ma la peculiarità del gruppo era, in quegli anni, quel profondo mood nordico – i nostri sono norvegesi – pregno di estatica malinconia che avvolgeva tutti i loro dischi e che ti faceva sanguinare il cuore ascoltandoli.
Il lento declino comincia con l’innamoramento per il flower power, per quell’acid rock west coast da hippy anni ’60, roba alla Grateful Dead/Jefferson Airplane per capirci, che i nostri iniziano a miscelare a sonorità proto hard punk à la MC5 (influenza quest’ultima avvertibile soprattutto nelle esibizioni live): per carità, tutte cose buone e giuste, ma questa sterzata a livello stilistico coincide con un progressivo inaridirsi della linfa compositiva. Barracuda (molto crudo e detroitiano) e Let Them Eat Cake (più pop e dai massicci arrangiamenti orchestrali) sono ancora due ottimi album, ma da Phanerothyme in poi i nostri smarriscono la via, perdono quel famoso mood, riempiono i loro dischi di molto mestiere, ma è l’anima che viene a mancare. Nel frattempo il batterista H. Gebhardt molla, sosituito da Kenneth Kapstad; ed anche questo è un segno. Bent Saether e Snah Ryan proseguono imperterriti, e Little Lucid Moments, disco del 2008, si lascia ascoltare con piacere, merito soprattutto di un piccolo ritorno alle origini – il sound è più sanguigno – e della presenza in scaletta di Year Zero, brano dalla statura di classico. Con Heavy Metal Fruit si ritorna nella mediocrità, peggiorata anche dalla triste constatazione per il trip con certo progressive che ormai offusca le menti dei nostri.
Dopo questo breve excursus è finalmente giunto il momento di parlare dell’ennesimo – e doppio – nuovo album, The Death Defying Unicorn, cofirmato con Staale Storloekken, musicista norvegese già collaboratore con alcuni gruppi locali (Elephant9). Purtroppo di questo album c’è ben poco da dire: i Motorpsycho continuano nella loro fascinazione per il progressive più pomposo e stantio, infarcendo queste 13 lunghe composizioni di arrangiamenti orchestrali, assoli speed metal (!), tediose opere rock che neanche i peggiori Yes (Oh Proteus-A Prayer, solo il titolo dice già tutto). E dire che l’attacco jazzy dell’iniziale Out Of The Woods aveva fatto ben sperare, con quel sax che sembrava davvero “uscire dal bosco”: ma il resto è veramente poca cosa. E non basta la perizia strumentale, non basta neanche – presumo – l’idea di concepire una sorta di lunga suite dal forte afflato sperimentale: qui mancano le canzoni, punto e basta. Saether e Ryan compongono un’opera estenuante, a cui si fa fatica a prestare ascolto fino alla fine.
Probabilmente quest’album verrà salutato come un capolavoro, come la perfetta unione tra certo psych prog rock e ricche orchestrazioni dal taglio avant jazz (grazie alla presenza della Trondheim Jazz Orchestra); a noi sembra piuttosto una paccottiglia indigesta e tristemente ambiziosa, ultimo pesante respiro esalato da un colosso della musica contemporanea ormai quasi privo di vita.
R.I.P. Motorpsycho, ti abbiamo voluto molto bene.
[box title=”Motorpsycho & Staale Storloekken – The Death Defying Unicorn” color=”#D46D00″]
tracklist:
Disc 1
Out of the woods / The Hollow land / Through the veils / Doldrums / Into the gyre / Flotsam
Disc 2
Oh Proteus – a prayer / Sculls in limbo / La lethe / Oh Proteus – a lament / Sharks / Mutiny! / Into the mystic [/box]