Salgono sul palco bevendo vino in calice e salutando l’uscita dei The Treatment, gruppo spalla di origine australiana che intrattiene per una quarantina di minuti con un set entusiasmante fatto di hard rock di qualità.
Il Viper Theatre, nel frattempo, si riempie: è l’unica data italiana di questo tour europeo dei Mudhoney.
Parte la rullata, entra il basso e il concerto si apre con Slipping Away per proseguire con I Like It Small: si scatena il delirio, che si protrarrà per i successivi cento minuti. La scaletta include quasi interamente l’ultimo lavoro, Vanishing Point; il tutto ben miscelato con pezzi storici come I’m Now, Suck You Dry, Touch Me I’m Sick, The Money Will Roll Right In. Per una sera soltanto, Firenze come Seattle ’90. Si poga, si fa stage diving e si urla insieme a Mark Arm, che sembra ancora un ventenne e sorride beffardo alla vista dello spettacolo sotto i suoi piedi. L’acustica, per fortuna, è ottima, almeno da sotto il palco, con gli amplificatori infilati nello stomaco, mentre Mr. Steve Turner elargisce assoli di chitarra fotonici.
A un certo punto Guy Maddison, dalle cui dita mal riesco a staccare gli occhi, indica ai compagni uno striscione che recita “Stay grunge 4 aver”: grasse risate per il bassista, sorriso beffardo per Arm, mentre Steve Turner e Dan Peters fanno finta di niente e tirano avanti con assoli e bastonate. “Fucking stoners”, avrà pensato dentro di sé Mark Arm – ma non l’ha detto a voce alta solo perché era intento a urlare cose tipo “ah ah goddamn!”. I Mudhoney sono l’unica band di Seattle rimasta ininterrottamente in attività dal 1988, e il fatto che l’album del 2013 si fonda perfettamente con la discografia che quest’anno compie un quarto di secolo è meraviglioso, esaltante.
La magia si interrompe per una manciata di secondi solo quando Turner fa cenno agli altri di aspettarlo mentre il tecnico gli sostituisce la chitarra dalla corda spezzata – scena non esattamente rock’n’roll, ma del resto la vecchiaia arriva per tutti, che si veda o no. Deve avere un debole per Guy Maddison, perché mentre jammano vis à vis, l’uomo con la Guild Starfire rossa tenta ripetutamente di stampargli bacini sulla bocca. Mark Arm intanto continua la saga delle smorfie beffarde.
Dopo circa un’ora di delirio, sulle note finali di The Only Son Of the Widow From Nain il gruppo saluta e se ne va, rientrando poi per un encore di oltre mezz’ora: Here Comes Sickness, tra le altre, e pezzi abbastanza inaspettati per chi non aveva letto le scalette precedenti, come Fix Me dei Black Flag e Hate the Police dei Dicks. Tutti contenti, pieni di lividi e con qualche chilo in meno, ci apprestiamo a uscire da un Viper sottosopra. Riprendo la foto che ho scattato con Mark Arm nel pomeriggio e rivedo, dopo il passaggio dei Brad nello stesso locale lo scorso febbraio, un pezzo di Seattle stampato indelebilmente nella mia città.