venerdì, Novembre 22, 2024

Mùm, l’intervista

Fotografie – Francesca Pontiggia // puoi guardare sempre su indie-eye il foto set completo del live-set dei Mum a Milano il da questa parte!!! Di seguito l’intervista di Fabio Pozzi

I Mùm stanno portando in giro per l’Europa il loro nuovo album, “Singalong To Songs You Don’t Know”, vero e proprio scrigno pieno di delizie pop. Abbiamo incontrato prima della data milanese il fondatore e leader della band Örvar Þóreyjarson Smárason. Ecco cosa ci ha detto.

Benvenuto su Indie-Eye. Vorrei iniziare l’intervista chiedendoti qualcosa sul vostro nuovo album “Singalong To Songs You Don’t Know”. Penso che siate riusciti a trovare il perfetto equilibrio tra elementi diversi, come il pop, la malinconia e la sperimentazione. Il primo ascolto porta realmente a cantare canzoni sconosciute, poi si possono scovare le anime nascoste dei brani, più sperimentali e piene di sorprese. E’ qualcosa che avete cercato di ottenere durante il lavoro sull’album?

No, in definitiva no. Penso che se abbiamo trovato questo equilibrio è perché in realtà non lo abbiamo cercato. Non abbiamo cercato alcun tipo di equilibrio, non cercavamo di fare nulla in particolare. Abbiamo semplicemente colto quello che accadeva, senza guardare indietro né facendo progetti per ciò che sarebbe seguito. Facevamo musica, lasciando che la creatività fluisse; mentre lavoriamo ai brani non pensiamo troppo a quello che facciamo, né ne parliamo molto.

Uno dei temi più esplorati nel disco, fin dalla copertina, è la luce. Perché la luce è così importante per i Mùm?

Non so, credo che la luce sia importante per tutti. Qualche volta senti di aver bisogno di un certo equilibrio tra luce ed oscurità. Noi veniamo dall’Islanda, che è molto scura durante l’inverno e, al contrario, piena di luce durante l’estate. Così, sia durante il buio inverno sia durante l’estate, spesso quello che vuoi è equilibrio tra luce ed oscurità, che ci sia la giusta luce nella tua vita. È quindi normale che questa ricerca emerga anche nella nostra musica.

Un altro tema che sembra emergere è quello dell’infanzia, specialmente in un paio di canzoni, cioè “Hullaballabalú” e “Kay-ray-ku-ku-ko-kex”, che sono delle specie di filastrocche. Come sono nate queste canzoni?

Penso che quelli che sono visti come riferimenti all’infanzia, in realtà siano più riguardanti l’essere fedeli a ciò che siamo e aperti con noi stessi, che è qualcosa che ha sì a che fare con l’infanzia, ma che dovrebbe essere parte della vita di ognuno. Penso che dovremmo essere così anche dopo essere cresciuti, non solo da bambini. Quelle canzoni sono nate come gran parte delle altre, con nulla di particolare in più o in meno, in modi, come ho già detto, che sono difficili da spiegare e descrivere.

Un’altra canzone molto interessante è l’ultima del disco, “Ladies Of The New Century”. È una delle meno prodotte nella vostra storia. In essa il silenzio gioca un ruolo molto importante, “duellando” con il piano e le voci. Qual è il ruolo del silenzio nella vostra musica?

Penso che tutti gli elementi nella nostra musica, in realtà non solo nella musica ma anche nelle idee e nei processi creativi, ma soprattutto nella musica, si basino sugli opposti. Semplici opposizioni: luce e oscurità, come abbiamo detto prima; rumore e pace; silenzio e suono; notte e giorno. Tutti questi elementi sono molto importanti per ciò che facciamo, l’unione di tutti loro è la cosa più importante nella nostra musica. Per quanto riguarda il silenzio, può essere presente come attesa per ciò che sta per accadere, per il suono.

In questo album avete usato molti strumenti. Avete anche introdotto quelli etnici, ad esempio marimba e ukulele. Come mai questa scelta? C’è qualcosa in quegli strumenti che riflette la vostra anima?

Il fatto è che noi suoniamo molti strumenti differenti, ci divertiamo molto a prendere un nuovo strumento e a suonarlo, perché puoi farci cose che fino a quel momento, con quelli tradizionali, non eri mai riuscito a fare. Molto spesso una nuova canzone nasce perché troviamo un nuovo strumento e quando lo suoniamo per la prima volta viene fuori qualcosa di speciale, qualcosa che aspettavamo e che ci stimola.

Per questo album avete cambiato etichetta, passando alla Morr Music. Potrebbe sembrare strano, visto che “Sing Along To Songs You Don’t Know” è il vostro album meno elettronico. Perché questo cambiamento allora?

Avevamo appena finito di lavorare con la Fatcat e Thomas della Morr Music, che era nostro amico da molto tempo, da quando ci siamo trasferiti a Berlino la prima volta, ci ha proposto di passare alla sua etichetta. È stata la scelta più ovvia per noi quella di passare alla Morr, anche perché per quanto ci riguarda, e credo valga anche per la Fatcat e la Morr, non ci deve essere per forza questo legame strettissimo con la musica elettronica. Le persone all’interno del business creativo non pensano così tanto a queste cose, come a volte chi ne è fuori invece fa.

L’album è stato messo a disposizione in download ad agosto, con il 10% dei proventi devoluto a Refugees United. Puoi dirci qualcosa di più su questa iniziativa? Come avete avuto questa idea?

L’idea è nata dal sito musicale Gogoyoko. È una nuova iniziativa che vogliamo diffondere in tutto il mondo, per far sì che in futuro tutti i proventi di ciò che la gente trova su internet vadano direttamente agli artisti, ad eccezione della parte destinata alla beneficenza. Sulla pagina internet ogni artista può scegliere l’associazione a cui devolvere questi soldi; Gogoyoko lavora molto con l’associazione ONU per i rifugiati, così abbiamo deciso di dare a loro la nostra parte, dato che hanno un progetto nuovo e molto interessante. La loro idea è quella di ristabilire i contatti tra i rifugiati che non hanno più la possibilità di averne, sia tra parenti che tra amici che si sono allontanati a causa della guerra. Penso sia molto importante aiutare chi lavora per questo; magari a noi, che siamo sempre su Facebook, sembra impossibile avere difficoltà a contattare qualcuno, ma nel mondo reale purtroppo è così.

Avete lavorato al disco durante la crisi economica e sociale che ha colpito l’Islanda. Possiamo dire che il senso di serenità che troviamo nel disco è una sorta di reazione alle difficoltà del vostro paese?

Sì, penso che sia un modo per approcciarsi all’album. Abbiamo mantenuto la stessa serenità che c’era nei nostri lavori precedenti, perché crediamo sia importante restare sempre se stessi, sia quando accadono cambiamenti drammatici, come è accaduto in Islanda, sia quando non cambia nulla attorno. La cosa peggiore in Islanda è stato ciò che è accaduto prima della vera e propria crisi politica, cioè il crollo dell’economia, che è stato davvero orribile, una crisi economica che si trascina ancor oggi. Quindi l’importante è stato restare noi stessi, anche per dare un segnale.

Parliamo ora dei concerti che state portando in giro per l’Italia e l’Europa in questo periodo. Come fate ad esprimere la complessità del vostro sound, che emerge chiaramente su disco, anche dal vivo?

Il modo più semplice per spiegarlo è dire che siamo sette persone con sette forti individualità che suonano sul palco. Nessuno dice agli altri cosa fare e come farlo on stage; ciò che emerge come collettivo ha quindi una forte base individuale, in realtà. Stasera a Milano, come in tutte le altre date, faremo quindi uno show con sette differenti visioni.

In questo tour suonate anche brani dai vostri primi album, che hanno un suono abbastanza differente da quello sviluppato ultimamente?

Sì, faremo un brano da “Summer Make Good” e un pezzo da “Finally We Are No One”, oltre a qualche canzone, cinque o sei, da “Go Go Smear The Poison Ivy”, che è più simile all’ultimo album.

La scena musicale islandese è sempre piena di fermento e di nuove band. Quasi ogni anno appaiono nuovi nomi. Puoi dirci qualche nome che secondo te è destinato ad emergere quest’anno?

C’è una band chiamata Retro Stefson, davvero fantastica. C’è poi un altro gruppo, i Nolo, che non ha mai realizzato un album, per ora. Ci sono poi un sacco di gruppi proprio su Gogoyoko, il sito di cui ho parlato prima, e altri ancora, ad esempio i Sudden Weather Change. C’è poi un progetto in cui sono direttamente implicato, FM Belfast, che mi eccita molto e con cui presto andrò in tour.

La vostra musica è spesso descritta come cinematica. Cosa ne pensi? E qual è il vostro rapporto con il cinema?

Per quanto riguarda il nostro rapporto con il cinema, siamo tutti molto interessati, a differenti livelli e anche su generi differenti. Per quanto riguarda invece la definizione che viene fatta della nostra musica come “cinematica”, credo che si riferisca al fatto che essa crea immagini nella mente dell’ascoltatore. Credo sia una grande cosa ottenere una musica in grado di far “progettare” immagini a chi ascolta; non è qualcosa che cerchiamo di ottenere assolutamente, ma se accade siamo molto felici, è un elemento in più per dire che abbiamo fatto un buon lavoro.

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Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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