Libertà, insoddisfazione, precarietà, temi gettonatissimi dal contesto indipendente italiano, a volte fotografia bruciante di un’esistenza condotta sul filo, più spesso maniera che denuncia un clamoroso vuoto di idee, tempo perso dietro al niente. Nel caso dei Nadàr, la banalità adolescenziale dei testi non riesce a passare in secondo piano, complice un sound fastidiosissimo, che recupera fuori tempo massimo una muscolarità cross-over incerta, a tratti contaminata casualmente con quello che c’è: wave, afrobeat (la vita funziona da se, non volevo), indie rock dei più banali, il solito cantautorato (Cara madre) più come scusa che come richiamo alle radici. Non si riesce a capire a chi si rivolga questo tipo di musica, a quale ascoltatore se non quello immaginato come “target” che non esiste più, perché la realtà raccontata è quella a rischio banalizzazione degli slogan senza spessore, dove la musica segue a ruota. Anonimi, superficiali. Da dimenticare