venerdì, Novembre 22, 2024

Nick Waterhouse – Holly: la recensione

Nick Waterhouse ci assomiglia davvero a Buddy Holly, ma le sue influenze non si fermano da quelle parti, si perchè il suo amore verso certi crooner dei cinquanta, passa più dallo spirito Jazz di un Cab Calloway o di un Jack Jones, dal miele di Roy Orbison e dal soul disperato di Van Morrison, la cui voce ha alcune assonanze timbriche con quella di Nick, il tutto condito da una buona dose di post-modernità che a tratti fa pensare a quello che di tutta questa musica ne avrebbe fatto Elvis Costello o il songwriting di Jonathan Richman. Ispirato in parte alla passione del nostro per la letteratura noir, “Holly” è un piccolo concept album, una vera e propria opera “hard boiled” che si muove intorno alle vicende di una ragazza Losangelina trovata morta, con toni e modi che lo stesso Waterhouse ha definito vicini all’universo romantico e oscuro di Mulholland Drive e che ha sviluppato con tutti i crismi del genere, personaggi e narratore onniscente incluso, ispirandosi in buona parte anche alla narrativa di Raymond Chandler o ai romanzi di John Fante. A tutto questo, sul piano strettamente musicale, si aggiunge la produzione di Kevin Augunas (The Black Keys, Cold War Kids) e la presenza di Larry Goldings al piano e all’organo, ovvero di un suono che ha attraversato artisti come Captain Beefheart e JT Thomas, e che qui viene marcato in una direzione totalmente R&B. 
Ma non è il revivalismo Motown che interessa a Nick Waterhouse, perchè anche se la sezione fiati prende carburante da quella storia, il songwriting di “Holly” porta alle estreme conseguenze l’anima Rock’n’roll del precedente Time’s All Gone inanellando una serie di brani taglienti, concisi, che si ispirano alla tradizione surf di Jan & Dean, o a quella più contaminata di Johnny Burnette, con l’intenzione di recuperare più storie sonore tra i cinquanta e i sessanta, attraverso quello spirito vitalistico che è alla base di band come Allah-Las (da lui prodotta) o delle cose migliori e meno loffie di Ty Segall.
Supportato da un ensamble di musicisti della sua città, “Holly” è definitivamente un album Losangelino, perchè, come ha avuto modo di raccontare Waterhouse in un’intervista “è una storia completamente intrisa dello spirito di Los Angeles, come lo era Double Indemnity di Chandler”. Brillante e oscuro, l’album passa dal groove contagioso di This is a Game, con la voce di Waterhouse più Morrisoniana che mai, ad episodi crepuscolari come la Jazzata Let it come down o l’ipnotica Dead Room, forse il brano più bello di tutto l’album, con l’organo di Goldings che fa da traino e una coda Jazz indiavolatissima.
Tutt’altro che lineare e univoco, “Holly” è un album divertente e stimolante, che servendosi di molti riferimenti del passato, non si arena dentro un quadretto color seppia.

 

Ugo Carpi
Ugo Carpi
Ugo Carpi ascolta e scrive per passione. Predilige il rock selvaggio, rumoroso, fatto con il sangue e con il cuore.

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