domenica, Dicembre 22, 2024

NOS Primavera Sound 2014, il live report completo

Qualcuno lo chiama “Mini-Primavera”, ma la definizione più adatta forse sarebbe “Primavera a misura d’uomo”. Il NOS Primavera Sound ha infatti ritmi e modi più legati alla penisola iberica rispetto al suo progenitore di Barcellona, città molto più cosmopolita e per questo influenzata da grandeur e velocità centro-europee. È un festival che può essere assaporato lentamente quello di Porto, un po’ come il famoso vino da lì proveniente, senza l’ansia di dover per forza saltare da un palco all’altro nel giro di pochi minuti (ottima in questo senso la vicinanza e l’alternanza tra i due palchi principali), senza doversi sorbire abbigliamenti hipster o meglio da deficienti, senza particolari file per mangiare o andare in bagno (conta anche quello, eccome) e, diciamocelo, con anche pochi italiani, scoraggiati dai collegamenti aerei poco numerosi, dalla mancanza di hype e magari anche dalla concomitanza con il più noto festival indie italico.
Questi bassi ritmi non inficiano però la possibilità di vedere almeno una decina di concerti al giorno, per chi lo volesse, passando da grandi nomi storici a next big thing, da solide realtà internazionali a giovani ma interessanti gruppi locali. Che volere di più quindi, considerando anche il basso prezzo degli alcolici e del cibo? Forse un vento un po’ meno freddo, ma se si è sull’Oceano Atlantico bisogna farsene una ragione, e anzi sfruttare l’occasione per immagazzinare un po’ di fresco in vista della stagione estiva in arrivo.

Passiamo però alla musica, che rimane la cosa più importante di un festival (tranne forse per quello italico citato prima), partendo dalla serata di giovedì 5 giugno, la prima e più intima, anche se si parla comunque di quasi 20000 spettatori, delle tre in programma. Ad aprire le danze sono gli Os Da Cidade, gruppo locale come si può intuire dal nome, che si presentano sul palco con tanto di guitarron, facendomi sperare per un attimo in degli epigoni dei Gipsy Kings. In realtà si rivelano molto meno carichi, autori di un folk malinconico e dalla scrittura abbastanza piatta. Molto meglio di loro fa Rodrigo Amarante, capace di mescolare tradizione brasiliana a suoni moderni, con anche una bella cover in portoghese di Where Did You Sleep Last Night, eseguita prima di un finale dal gusto elettronico e danzereccio. Dopo la pausa cena che mi fa perdere i da me mai particolarmente amati Spoon, mi posso dedicare a Sky Ferreira. La ragazza ci sa indubbiamente fare, tiene il palco molto bene e le canzoni non sono niente male, in particolare I Blame Myself, Heavy Metal Heart e 24 Hours. Per ora cammina sul crinale assai scivoloso tra maledettismo wave (si presenta infatti con look quasi gotico) ed accessibilità pop, se in futuro riuscirà a non cadere e a proseguire su questa strada potrà darci delle belle soddisfazioni. Staremo a vedere, intanto la promuoviamo.

Completo cambio di prospettive e di atmosfere per il seguente concerto, quello del grande protagonista della serata, Caetano Veloso. Il suo è infatti un set pensato per il teatro e in grado di evocare, partendo naturalmente dalla radice brasiliana del suo songwriting, molte delle avanguardie musicali delle ultime decadi: nel bel mezzo dei brani spuntano infatti momenti di minimalismo iterativo, assoli rock hendrixiani, assalti di puro noise rock dalle parti dei Big Black e spunti ritmici elettronici, senza mai sembrare fuori luogo o inopportuni, grazie alla profonda consapevolezza di Caetano, uno dei pochi musicisti rimasti con una potente visione del mondo e dell’arte, e alla bravura della band. Il resto è grande musica brasiliana, canzoni bellissime in bilico tra malinconia e gioia di vivere, perle come Baby, Triste Bahia, Quero ser giusto o A luz de tieta, posta in chiusura a creare attimi di vera e propria magia. Il seguente concerto delle Haim diventa così solo un momento di decompressione dopo le emozioni di Veloso, anche se le ragazze dimostrano senza dubbio che quanto di buono si dice su di loro è vero. È un pop intelligente, ben suonato e dagli ottimi ganci melodici quello delle californiane, che sono anche assai carine e mentre suonano sgambettano graziosamente sul palco, il che non fa mai male.

La seconda serata, fortunatamente asciutta dopo la pioggia durata gran parte della giornata, inizia per me con i Föllakzoid, band dalla provenienza esotica, il Cile, ma dall’animo e dai suoni molto più spostati verso il nord del mondo, tra la Germania del krautrock e il Nord America della psichedelia. Tutto abbastanza già sentito, ma suonato comunque molto bene e con il giusto piglio da jam session spaziale. Dopo di loro arriva uno dei momenti da me più attesi di tutto il festival, cioè il concerto dei Television impegnati nella riproposizione del loro classicissimo Marquee Moon. Attese ripagate solo in parte, perché Tom Verlaine non pare in forma, soprattutto dal punto di vista vocale, e la band in generale suona un po’ freddamente, giusto per onorare il contratto, però quando parte l’inconfondibile intro della title track un po’ di emozione la provo, devo ammetterlo. Dopo di loro un’altra reunion di lusso, questa volta dagli esiti molto più convincenti, quella degli Slowdive. Per loro il tempo non sembra essere passato, le sensazioni oniriche del loro shoegaze sono le stesse di vent’anni fa, con in particolare gli interventi vocali di Rachel Goswell a portare chi ascolta verso un’altra dimensione. Da brividi soprattutto la tanto attesa Alison, ma anche Souvlaki Space Station e She Calls non sono da meno, pezzi di anni novanta passati indenni attraverso due decenni e ancora in grado di colpire. Per non farmi mancare nulla dell’effetto nostalgia scelgo poi di vedere i Pixies, ormai orfani della mia amata Kim Deal. L’effetto che mi fanno è lontano da quello esaltante del Primavera 2010, ma va detto che il loro non è per nulla un brutto concerto: Frank Black infatti è pur sempre un genio e di grande canzoni da mettere in scaletta ne ha un bel po’, da Hey a Velouria, da Here Comes Your Man alla conclusiva Where Is My Mind?, inoltre la band sembra anche divertirsi abbastanza e non essere lì solo per onor di firma. Tocca poi a Trentemøller tentare di tenere caldo il pubblico, ma non sembra riuscirci più di tanto con un live set (con band di cinque elementi) un po’ troppo fighetto e plasticoso. Dopo di lui toccherebbe ai Mogwai sul palco principale, ma la mia idiosincrasia di questi anni verso il post-rock mi suggerisce di tornarmene in albergo a dormire.

La serata conclusiva, quella di sabato, è anche quella in cui ci saranno i tre concerti per me più convincenti, forse per non contraddire il detto “last but not least”. Dopo un ascolto distratto alle sintesi elettroniche degli Eaux, giunge il momento del grandissimo Lee Ranaldo, accompagnato dalla sua nuova band, The Dust, formata da nomi noti come Alan Licht e Steve Shelley. Come prevedibile il suo è un ottimo concerto, che inizia con un po’ di Italia grazie al brano Lecce, Leaving e prosegue concentrandosi soprattutto sull’ultimo album, Last Night On Earth, tra canzoni più (Blackt Out) o meno (Ambulancer) sperimentali, ma sempre e comunque suonate con vera passione e voglia di dimostrare che c’è vita dopo i Sonic Youth. Dopo di lui arriva l’altro momento attesissimo da parte del sottoscritto, cioè l’esibizione dei Neutral Milk Hotel, che prende il via con una versione chitarra e voce da parte di Jeff Mangum di Two-Headed Boy veramente molto sentita. Per la successiva The Fool arriva il resto del gruppo, un’allegra accozzaglia di freak che suonano un po’ di tutto, accompagnando perfettamente Jeff nei suoi viaggi musicali a tratti punkeggianti (soprattutto i pezzi tratti da On Avery Island) a tratti splendidamente folk (basti citare In The Aeroplane Over The Sea, forse il momento più emozionante del set). La soddisfazione è dunque totale, per una volta la mia attesa è stata pienamente ripagata. L’altro grande nome della serata sono i The National, ma non sono una band che apprezzo particolarmente, motivo per cui preferisco dirigermi verso altri lidi e altri palchi. Il primo è quello delle Dum Dum Girls, stilosissime come sempre, con Dee Dee pressoché nuda e le altre poco più vestite, con la loro solita e riuscita commistione tra melodie sixties e approccio post-punk; il secondo quello di Charles Bradley, che sfodera una prestazione di pura classe, nel nome di James Brown e di Otis Redding, con momenti da pelle d’oca come Lovin’ You, Baby e soprattutto Why Is It So Hard, la canzone che narra l’incredibile storia della sua vita e che porta a riflettere una volta di più sul concetto di sogno americano, anche se Charles l’ha realizzato. Le ultime note che ascolto al Nos Primavera Sound 2014 sono quelle degli Speedy Ortiz, giovane band americana capeggiata dalla bella ed aggressiva Sadie Dupuis, autrice di testi davvero interessanti, sorretti da suoni con più di un debito verso l’indie anni Novanta dalla resa live più che soddisfacente.
Non resta che dire: Ciao Porto, ci rivediamo sicuramente nel 2015.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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