La musica di Corey Duncan è una strana creatura pop, attraversato da quella grandeur malinconica cara a Mark Oliver Everett imbastisce i fili di un folk intimista già compromesso da una voce del tutto baritonale per poi giocare con le influenze più disparate e farle confluire nell’involucro di un chamber pop tra i più ispirati in circolazione insieme a quello dei fratelli Brewis, inclusa la recente uscita di Peter insieme a Paul Smith.
Sostenute da una chitarra acustica utilizzata in funzione ritmica e da un drumming quasi sempre saturo e vicino alla distorsione, tutti i brani di Wild part of the world sono arricchiti da una sezione archi che pur delineando la vocazione orchestrale del lavoro, tratteggiano confini decadenti e oscuri, un cristallo sempre sul punto di rompersi; brani come Helena e Dark and muted eyes documentano perfettamente questa incrinatura, mentre I’m a wild part of the world potrebbe essere uno dei brani più urgenti degli Xtc di Skylarking, quelli appunto cameristici e tendenti al bozzetto. E se Under the olive tree, che è anche il singolo, recupera un mood di tipo folklorico con esplosione corale alla Sufjan Stevens, Duncan sembra muoversi meglio intorno alla canzone degli anni ’30, alla ballad decadente e al mondo della musica colta che rivisita attraverso una lente intimista e interiorizzata. È il caso di Chaconne, brano strumentale Chopiniano, ma con quella qualità della registrazione che lo deforma verso una certa decadenza Weilliana. Ma sopratutto è la conclusiva Tchaikovsky che si prende il peso di sintetizzare il mondo di “Wild part of the world”, adattamento “pop” della Quinta Sinfonia di Tchaikovsky, oscuro viaggio anti-romantico, tetro e grandioso allo stesso tempo, cristallino e soffocante.