mercoledì, Dicembre 18, 2024

Oliver Coates ad Hand Signed, Firenze: l’intervista

Hand Signed è un progetto realizzato da Musicus Concentus, NODE festival e OOH-sounds con la collaborazione del Museo Marino Marini. Si presenta in forma di rassegna, pensata come una sonorizzazione ‘in progress’ per gli affascinanti spazi della Sala Vanni di Firenze. Partendo dall’idea di un suono manipolato in maniera quasi artigianale, sono stati selezionati sette artisti internazionali riconosciuti come fondamentali nella attuale scena elettronica sperimentale. Tra questi c’è Oliver Coates, che sarà protagonista sul palco fiorentino il prossimo 19 febbraio con un concerto tra i più attesi della rassegna. Il violoncellista inglese, vero e proprio ragazzo prodigio di quella scena musicale in bilico tra classica ed elettronica che in questi anni sta guadagnando sempre più proseliti, proporrà al pubblico toscano il meglio della sua produzione, a partire dal suo disco solista Towards The Blessed Islands fino ai progetti con Leo Abrahams e Mica Levi, con qualche puntata anche nel mondo delle soundtracks di cui è stato protagonista. Abbiamo raggiunto Oliver per avere qualche anticipazione sulla data fiorentina e per capire qualcosa in più sul suo approccio musicale, tra i più interessanti oggi in campo sperimentale.

Ciao Oliver, benvenuto su Indie-Eye. La prima domanda che vorrei farti riguarda il concerto che terrai a Firenze. Cosa dobbiamo aspettarci dal tuo show?

Suonerò il violoncello, ci saranno suoni registrati, processati elettronicamente, musica orizzontale, grunge dell’oceano, minimalismo, tutto fatto con il cuore in mano.

Penso che la Sala Vanni, il luogo del concerto, sia un posto fantastico per fare musica. Le tue performance dal vivo sono influenzate dal luogo in cui ti esibisci? E quali sono i luoghi che preferisci?

Dalle foto la sala sembra davvero eccezionale. Sì, sono interamente influenzato sia consciamente che inconsciamente dal luogo in cui mi trovo – i suoi materiali, la forma, la grandezza, l’acustica e anche la sua storia, la sua estetica. Anche se la musica cerca di sfuggire a queste cose. Mi piace suonare ovunque – fabbriche, piscine, teatri di musica classica, persino nell’appartamento di mia suocera!

Finora nella tua carriera hai lavorato con molti artisti, soprattutto provenienti dall’ambito elettronico. Qual è secondo te il legame più importante tra musica classica ed elettronica? E cosa ti ha portato a mescolare questi mondi?

I suoni. Ho sempre ascoltato tanta musica diversa nello stesso momento – non c’è mai stata l’intenzione di mescolare alcunché, ho solo iniziato a lavorare e a fare quello che volevo. Tutta la musica è sia acustica che elettronica e non ho mai pensato in termine di generi.

Hai anche provato ad esplorare le connessioni tra mondi sonori differenti all’interno della rassegna Harmonic Series, che hai organizzato al Southbank Centre. Come hai scelto gli artisti per gli eventi? Hai in programma altre serie di concerti dello stesso tipo?

Sì, il prossimo sarà il 6 marzo: Elysia Crampton e Tirzah. Poi organizzerò un festival chiamato DEEP∞MINIMALISM il 24-26 giugno in una chiesa nel centro di Londra, con musica di Radigue, Oliveros, Spiegel, Levi e Finnis. Nella scelta degli artisti non penso in termini di stile, forma o profilo di chi suona, cerco opere che mi emozionino, è quello il mio principio guida.

Ci sono artisti che hanno sperimentato connessioni tra musica classica ed elettronica che ti piacciono particolarmente o che hai preso come esempio quando hai iniziato a fare musica?

Quando ho iniziato con la musica avevo sei anni, quindi non ero consapevole di termini come “musica classica”, che è un nome collettivo per adulti fatto per comprendere più di 600 anni anni di musica. Lavoravo su un pezzo alla volta, poi su tanti, poi ho iniziato a improvvisare ed ero influenzato da chiunque e da qualunque cosa ascoltassi. Allora mi piacevano Michael Jackson e gli Orbital, per esempio, oppure la jungle che era al suo massimo splendore nella zona sud di Londra negli anni ’90.

C’è un compositore che ti piace più di tutti gli altri nell’intera storia della musica?

Mi piacciono tantissimi compositori, i miei ascolti si spostano in continuazione. In questo momento amo più di qualunque altra cosa la poetessa Alice Oswald e il suo poema Memorial. Ascolto la sua lettura dell’opera. Poi ascolto musica Mbira dallo Zimbabwe. Non sono sicuro del fatto che mi piaccia l’idea occidentale del singolo genio compositivo perché penso che la creazione di musica sia frutto di interazioni tra complessi strati del tessuto sociale e di cooperazione.

Penso che una delle tue collaborazioni più belle sia quella con Jonny Greenwood per la colonna sonora di The Master. Come sei entrato in contatto con lui? E come hai lavorato alla colonna sonora?

Grazie! Sono semplicemente stato invitato ad andare e a suonare con i miei amici che portano avanti la London Contemporary Orchestra. Posso dire che Jonny è un grande essere umano.

Hai lavorato anche su altre colonne sonore, per esempio Under The Skin con Mica Levi. Hai avuto un approccio diverso in questi altri casi?

Cerco di restare il più innocente possibile e di evitare eccessivi intellettualismi, di prendere idee musicali semplici e di lavorarci sopra finché non mi sembrano adatte al contesto. Per esempio per Under The Skin è stato molto intuitivo, abbiamo cercato di creare un senso di mistero.

Finora è uscito un solo album completamente a tuo nome, Towards The Blessed Islands, oltre a quelli con Leo Abrahams. Sono già passati tre anni da allora. Stai lavorando a un nuovo disco?

Considero i dischi con Leo alla stessa stregua di quello firmato solo da me. Il primo con lui è stato Crystals Are Always Forming ed è uscito su Slip nel 2011. Dopo Towards The Blessed Islands c’è stato l’EP Another Fantasy, poi Unreal Estate (la colonna sonora ufficiale) con Lawrence Lek, e vari remix e cover, quindi non sono stato con le mani in mano. Il mio prossimo progetto discografico è Upstepping, un mini-album elettronico che uscirà questo maggio.

A quali altri progetti stai lavorando poi?

Sto lavorando con Lawrence Lek su un nuovo progetto artistico per la rassegna Glasgow Art International. Stiamo scrivendo una grossa opera per quartetto d’archi con supporto multimediale per il 2017.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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