Un tempo per descrivere un suono come quello di cui è depositario Luca Di Mira, tastierista dei Giardini di Mirò qui alla sua seconda prova solista come Pillow dopo Flowing Seasons del 2006, si diceva “colonna sonora per film immaginari”. Se mai questa definizione, che per i Giardini è stata spesa più e più volte, ha avuto un significato, lo ha a maggior ragione per un disco che sin dalle sue prime battute, evoca visioni ed immagini concrete; suggestioni visive prim’ancora che sonore.
Sono i paesaggi brumosi e le lande innevate di Northern Latitudes, una glaciale bossanova, scheletrica come il groviglio di rami secchi sulla cover, sorretta dalle note sospese di un pianoforte, presto doppiate da un violoncello che trasporta tra le spire di un neoclassicismo che tiene interamente la scena fino ad occuparla del tutto sul finale. Così come nella breve Fragment, in cui gli archi scorrono soli come a commento di una scena grave ed intensa e The Cathedral of Books, di cui questa sembra appendice, con ancora il piano a scandire gli accordi di una marcia malinconica, terminale: il disvelamento di un segreto che nessuno avrebbe voluto conoscere. Mentre cala il buio su Nocturnal Horizon e su un gracidare indistinto, un telaio di note e trick elettronici conduce in un altrove placido e sospeso.
A Dream (Part 2), che fa seguito ad una A Dream (Part 1) vintage dai vaghi profumi Air, rompe la statica ambientale con una batteria dal passo dub che da un lato rievoca certo Glen Johnson solista, dall’altro si allinea sulle corde del Teho Teardo da soundtrack (appunto) in un ordito di piani, chitarre, archi più o meno sintetici e vortici di senso. Silent Journey, di contro, allungandosi a dismisura ed abbracciando tutti i vari stimoli che From Dusk to Dawn porta con se, pare voler sintetizzare davvero le varie anime del lavoro; scorrendo da un minimalismo ambient nell’intro (The Fall), in cui tra nebbie polari s’intravede lo spirito di una voce che fu umana, ad una disturbata sospensione elettronica (The Drifting), fino all’intreccio chitarra più ritmo in bitcrusher (The Awakening) che monta sul finale sino a rievocare, tra i suoi synth ed i suoi riverberi, i primi Port Royal. Malgrado il minutaggio esteso, però, che ne farebbero brano centrale e manifesto intero dell’opera, il cuore del progetto, sembra più risiedere nelle pacate atmosfere polari di Lullaby, che chiude, carezzando nostalgica in atmosfere pinkfloydiane vicine proprio alle suggestioni della band madre, un disco dal fascino cinematico, gelido e sottile di enorme intensità.
Fine, titoli di coda.