Dopo le date doppie in quel di Bruxelles, Berlino e Parigi, Polly Jean Harvey arriva nella sua Inghilterra per la prima di due attesissime date al Troxy, a pochi giorni di distanza dall’entusiastico ritiro dell’Oustanding Contribuition to Music Award assegnatole dallo storico settimanale NME. Il concerto, andato sold out in poco più di un’ora, riunisce appassionati provenienti un po’ da tutta Europa e già a partire dal tardo pomeriggio la venue brulica di fan accodati per guadagnarsi un posto sotto il palco, come da rito. Sulla prima data londinese cala però un’aspettativa particolare, una fervida curiosità per la resa dal vivo del nuovo album Let England Shake (N.D.R. recensito da questa parte su Indie-eye REC) che dell’Inghilterra fa crocevia di riflessioni contrastanti, patria amata e messa in discussione, fonte d’ispirazione tanto come sacro focolare quanto come punto d’osservazione disilluso sul resto del mondo. Dopo un’attesa non breve ma ben presto ripagata, Polly arriva sul palco: vestito nero, elmetto scenografico di piume corvine e un bustino in pelle ornato da innumerevoli cinte a stringerle la figura esile, a tratti bambinesca, in bilico fra l’austerità di una divinità guerriera e l’ossimorica aplomb da stravagante rockeuse che non l’ha mai abbandonata nelle sue svariate incarnazioni.
Già a partire dal tour di White Chalk Polly tende a strutturare le proprie esibizioni dal vivo con un impianto scenografico piuttosto stabile, ricorrente, puntando a uno spettacolo solido che rifletta alla perfezione nello stile, nella musica e nell’interpretazione il mood che circonda il disco. Se da una parte ciò porta a una totale mancanza di improvvisazione nella scaletta, d’altra parte, paradossalmente, dà la sensazione di assistere a qualcosa di unico, proprio perché così come è strutturato lo spettacolo è radicato nell’immaginario corrente dell’artista e ne riflette integrità e coerenza. Niente Sheela-na-gig, dunque, che qualche fan ostinato richiede sbraitando fin dall’inizio facendo un enorme buco nell’acqua.
Polly rimane per tutto il concerto nell’angolo alla sinistra del palco, alternando chitarre e alcune autoharp, strumento principe del nuovo disco. Al centro della scena un incastro di tastiere dietro a cui siede su una grande panca di legno (forse proveniente dalla chiesa del Dorset dove il disco è stato registrato?) sir Mick Harvey (spesso anche in veste di bassista), dietro cui riluce la batteria di Jean- Marc Butty, alla cui sinistra John Parish accompagna alle chitarre, cambiando spesso di postazione con Mick, in un continuo lavoro di precisione, che rende i pezzi di Let England Shake davvero molto vicini al disco, con tutte le loro sfumature corali e i loro intarsi polistrumentali.
La loro postazione centrale non è casuale: è con loro che il disco è stato musicalmente concepito e le parti vocali maschili sono una costante in quasi tutti i pezzi. L’album viene suonato per intero, più la tonante b-side The Guns Called Me Back Again. Il pubblico conosce tutte le parole ed è sorprendente sentir risuonare il Troxy con frasi come “I’ve seen flies swarming everyone” o “As we advanced into the sun/Death was all and everyone”. I testi non perdono in questo modo il loro peso, ma si alimentano dell’entusiastico feedback del pubblico, assumendo una veste straordinaria, vicina al midollo del folk e della musica popolare in genere: la compartecipazione.
Spicca l’intensità di England, la precisione vocale di Polly in On Battleship Hill, l’ipnosi elettro-reggae di Written On The Forehead (più accattivante della versione studio) e la carica irrefrenabile di The Glorious Land. La scaletta viene inframmezzata da pezzi di Is This Desire? e To Bring You My Love, i due album di cui l’artista si dichiara più soddisfatta per ricchezza compositiva: The River fa la comparsa in questo tour per la prima volta in assoluto e perdendo i toni funerei del 1998 diventa un pezzo di rock dimesso e trascinante; The Sky Lit Up in due minuti o poco più fa riemergere una punta di sana confusione e parte del pubblico non perde l’occasione per abbozzare un pogo estemporaneo. Down By The Water si presta come sempre a un “dialogo” di conrtocanti col pubblico, riconfermando il pezzo come pietra miliare della discografia di PJ e ritorna con la carica acida e rumoristica del 1995.
Il concerto si chiude con The Colour of The Earth, in cui le voci maschili sono predominanti e Butty colpisce il tamburo con ritmo cadenzato, quasi rituale, stando a bordo del centro palco e creando un assetto triangolare dell’esibizione che sembra proseguire fisicamente nell’audience stessa. Nell’encore Meet Ze Monsta incontra il manifesto favore del pubblico, pur spogliata della vena pazzoide cui Polly ha abituato i fan da metà anni Novanta, Angelene commuove per interpretazione, riconfermando l’abilità di Polly nel far rivivere i personaggi di quella perla oscura che fu Is This Desire?, mentre Silence, unico pezzo riproposto da White Chalk assieme a The Devil, chiude il set alla perfezione, lasciando impressa l’immagine di Polly in punta di piedi che dà prova delle sue doti vocali non prima di aver pronunciato da dietro le sue piume il verso disarmante: “Though you never wanted me anyway”. Non si sente la mancanza di una maggiore interazione verbale col pubblico: Polly sorride pacifica e soddisfatta, ringrazia sottovoce e introduce la band piena d’orgoglio. Interpreta tutti i pezzi con scioltezza ed estremo rigore al tempo medesimo: è impossibile distogliere lo sguardo dalla sua teatrale figura in controluce. Spettacolo di rara bellezza che alla precisione unisce il trasporto, dando sfogo a tutto il mondo ispirato dell’artista. Resta solo che aspettarla in Italia per farcelo raccontare.