The Hope Six Demolition Project sta prendendo forma e sarà sempre più difficile parlarne scindendo il lavoro di Pj Harvey da quello di Seamus Murphy. Il fotografo di guerra e documentarista che aveva già collaborato con la musicista inglese per i dodici film realizzati in occasione di Let England Shake, ha lavorato anche a questo progetto, portando avanti un discorso esplicitamente naturalista (Murphy ci tiene ad evitare la parola “realismo”) sfruttando in parte l’inserimento di alcune sue fotografie, filmando in condizioni di luce completamente naturali e limitando quindi al minimo gli interventi in post produzione. Già i dodici brevi film per Let England Shake chiarivano la relazione dialettica tra musica e immagini, quest’ultime utilizzate come una vera e propria apertura del senso rispetto ai suoni e alle liriche.
Il secondo video pubblicato in ordine di tempo e in rete dal 18 marzo amplifica quel concetto; The Community Of Hope fa parte di una sezione centrale in tutto l’imminente lavoro della Harvey, dedicata interamente a Washington D.C. di cui fanno parte anche Homo Sappy Blues, Medicinals, Near the Memorials to Vietnam and Lincoln, River Anacostia.
Pj Harvey – The Community of hope – dir Seamus Murphy
Rispetto a The Wheel, il primo dei due brani del progetto insieme a Chain of Keys dedicato al Kosovo, Murphy filma dalle parti del Ward 7, uno dei quartieri più poveri di Washington, risultato di una serie di deliranti progetti edilizi che nelle liriche della Harvey vengono definiti di volta in volta come una città “abitata da zombie“, “sentiero verso la morte” (Benning Road), “buco di merda” (in riferimento ad una delle scuole della zona).
Il brano ha suscitato reazioni durissime prima di tutto da parte del primo cittadino Vince Gray che ha dichiarato di non voler offrire alcuna visibilità ad una canzone così inutile con una risposta indirizzata direttamente alla Harvey. Una reazione analoga arriva proprio dalla “Community of Hope”, l’organizzazione noprofit che attraverso la voce di Leah Garett si è fatta sentire dicendo che lo scenario descritto non rende giustizia degli sforzi fatti per il recupero della zona e l’assistenza ai senza tetto. Ma il lavoro della musicista inglese condiviso con Murphy entra chiaramente dentro quegli ambienti, confrontandosi direttamente e accollandosi il rischio, sempre più raro, di assumere un punto di vista. Sono le immagini del fotografo irlandese a dare corpo alle liriche della Harvey, in uno scambio attivo tra dimensione evocativa e documentazione naturalistica. Nei due brevi film la realtà irrompe nel brano e lo biforca più di una volta facendolo vivere attraverso un’esperienza comunitaria molto forte, una sensazione che in The Community of hope è sottolineata non solo dall’incedere innodico del brano, ma dal modo in cui Murphy lo riproduce ritualmente attraverso le stazioni di un’esperienza fortemente religiosa. Ci è venuto in mente a questo proposito il lavoro di Jonathan Demme tra musica e documentazione, in quel tentativo di seguire la musica al di là della centralità performativa, ma al contrario attivando lo stesso flusso continuo di una perfomance attraverso una molteplicità di situazioni che passano da un soggetto all’altro, nomadicamente.
“Quando scrivo una canzone – ha detto la Harvey – visualizzo uno scenario intero. Vedo i colori, percepisco l’atmosfera e posso raccontare l’intera giornata, perché vedo la luce che cambia, le ombre, e tutto questo è nell’immagine […] voglio percepire l’aria, fare esperienza del luogo, incontrare le persone di cui scrivo e dalle quali sono affascinata“.
PJ Harvey – The Wheel – Dir. Seamus Murphy
Più di uno “statement” ci è sembrata una dichiarazione di metodo molto precisa, quasi rosselliniana nel suo essere dentro le cose prima ancora che la scrittura prenda corpo o guidi a-priori il risultato. Questo a prescindere dall’origine dichiarata, ovvero gli articoli di Paul Schwartzman, il giornalista del Washington Post che in qualche modo è stato il mentore del percorso cittadino affrontato dalla Harvey e da Murphy.
In questo senso lo scambio con Murphy diventa inscindibile e se i testi della Harvey possono essere intesi come una sceneggiatura, il modo in cui questa innesca altri percorsi reagendo con le immagini, sconfessa qualsiasi ipotesi di un progetto a tavolino, pur nell’unitarietà dello stesso, che in termini complessivi dovrebbe assumere la forma più inclusiva e meno frammentata del documentario.
Del resto, l’improvvisazione fa parte di un metodo che Murphy stesso racconta dai tempi della sua collaborazione per Let England Shake e che insieme alla Harvey attraversa differenti formati, dalla canzone al documentario, dal travelogue fino al volume di poesie (The Hollow of the Hand)
Nel video di The Community of Hope Pj Harvey non si vede e mentre in The Wheel la sua presenza assume un ruolo testimoniale, qui è la popolazione del Ward 7 a stabilire ogni connessione e a sostituirsi ad un certo punto alla voce narrante della Harvey, interpretando un frammento della canzone e evidenziando quel patrimonio “comune” pre-formale e pre-linguistico che Pasolini individuava come radice del cinema di Poesia, nel transito tra diverse soggettività.
In questo viaggio tra l’Afghanistan, il Kosovo e Washington DC, la Harvey e Murphy sollevano delle questioni che sono ormai del tutto assenti anche in quelle pericolosissime estetiche/politiche del cambiamento, proprio perché agiscono coraggiosamente sul reale evidenziandone le ferite e le cicatrici.
“Opera pubblica” quella della Harvey e di Murphy, con l’artista che condivide fuori dal perimetro ombelicale; dalle nostre parti praticamente impossibile.
What will become of us all?