sabato, Novembre 2, 2024

Primavera Sound 2010, un report in tre parti – 3/3

Le cose belle sono sempre destinate a finire velocemente, come la saggezza popolare insegna. Anche il Primavera Sound si adegua e arriva al terzo e conclusivo giorno, forse senza i picchi qualitativi dei giorni precedenti, ma con una line-up sempre e comunque più che rispettabile. La giornata per me inizia con gli Endless Boogie al Vice Stage. I quattro newyorkesi jammano alla grande sui loro blues granitici, mescolando influenze che vanno da Captain Beefheart, passando per il krautrock, per arrivare fino alle “moderne” evoluzioni hard psichedeliche di gruppi come Dead Meadow o Black Mountain. Sicuramente un buon concerto il loro, una scarica di elettricità che ci si aspetterebbe di trovare al Roadburn piuttosto che al Primavera e che dà energie per il resto della giornata. Sullo stesso palco, subito dopo di loro, ci sono The Clean. Le sonorità sono completamente diverse, ma il risultato resta ottimo. La cult band neozelandese (ispiratrice di Pavement e Yo La Tengo, per esempio) è tornata a riunirsi per un disco lo scorso anno: il risultato è stato “Mr. Pop”, che già dal titolo fa capire più o meno tutto. Le perle melodiche, sporcate con un po’ di garage e qualche divagazione psichedelica (che fa sempre bene), dei tre di Dunedin funzionano benissimo anche dal vivo. In particolare Are You Really On Drugs e In The Dreamlife You Need A Rubber Soul sono perfetti esempi di classe e stile applicati alla materia pop, suonato con tanta voglia anche davanti a un pubblico non troppo numeroso. Ma si sa, è questo il destino di molti gruppi, troppo bravi o troppo sfortunati per diventare di massa. Altro palco, il Pitchfork Stage, altra band storica, riformata con solo due componenti della formazione originaria: le Slits. Il loro punky-reggae a fine anni ’70 incendiava Londra; nel 2010 è solo qualcosa di molto noioso, che non incide né quando le chitarre lanciano qualche riff veloce, né quando i ritmi in levare cercano di farsi strada e scaldare l’ambiente. Dopo 20 minuti è quindi giusto andarsene al palco principale, il San Miguel, a vedere cosa combina Florence con la sua Machine. Di bianco vestita, la scozzese sa tenere il palco con maestria e ha anche una buona voce; peccato che manchi il sugo, cioè le canzoni. Il poppettino da classifica (inglese, sia chiaro, in Italia sarebbe un miracolo) che le contraddistingue, con richiami a Bjork, ai ruggenti anni 80 e a tratti al soul e ai girl groups, scivola addosso senza colpo ferire, ben confezionato ma in grado di dire ben poco.

Tanto vale dunque reimmergersi negli anni ’90, andando all’ATP Stage, dove suonano i Polvo. I quattro, guidati da Ash Bowie, partono un po’ contratti; dopo 2-3 brani senza spunti particolarmente interessanti e un sound piatto riescono però a decollare e a lanciarsi nelle loro divagazioni math-rock in maniera entusiasmante. Ascoltare gli spasmi ritmici e melodici e gli scontri delle chitarre diventa così un piacere, chiaramente non come inteso in senso comune. Si prosegue con gli anni Novanta, sempre all’ATP, con i Built To Spill. Doug Martsch passa metà del tempo a litigare con tecnici e fonico, ma la prestazione ne risente solo fino a un certo punto. Sarà che così suonano solo loro, nonostante innumerevoli tentativi di imitazione, sarà che in vent’anni di carriera i pezzi per fare una scaletta di cinquanta minuti li trovano senza fatica, sarà quel che sarà, ma convincono. Dolenti e rabbiosi (non solo verso i tecnici), riescono a creare attimi di pathos ed emozione, oltre ad altri di puro godimento sonico. L’immersione nel decennio clintoniano finisce con i Sunny Day Real Estate al Rayban Stage. Probabilmente per loro è stato il concerto della vita, davanti a una folla mai vista, tanto da indurli alle lacrime. Stessa cosa per i fan; un po’ meno per chi era davanti al palco con spirito critico. Alla lunga il loro suono emo-core si rivela abbastanza noioso e pomposo, suonato indubbiamente con tanto cuore e tanta voglia, ma senza mai apparire in grado di entusiasmare. Anche perché più volte il pensiero corre verso i danni fatti alla musica (involontariamente, sia chiaro) proprio da quel sound, che ha generato epigoni imbarazzanti purtroppo ancora oggi sulla cresta dell’onda. Il gran finale è invece affidato ai Pet Shop Boys. Non mi aspettavo un concerto epocale da loro, anche perché il loro synth-pop-disco non è certo un genere che mi esalti, ma un po’ di divertimento. Ed è quello che gli inglesi regalano, con uno spettacolo faraonico, pieno di luci, colori, ballerini e qualche manciata di brani che tutti, volenti o nolenti, conoscono. Ad esempio la cover di Go West oppure New York City Boy o ancora Always On My Mind, pezzo che è dimostrazione di gran classe, tra l’altro. Alla fine è quasi un dispiacere doversene andare prima della fine, ma gli aerei super low cost sono una necessità che a volte impone sacrifici e viaggi ad orari improbabili. Le impressioni definitive sui tre giorni di festival non possono che essere ottime; alla fine si avrebbe quasi voglia di ricominciare, sia per la qualità di quanto visto, sia per il clima generale respirato in ogni istante; rilassato, sempre a misura di spettatore, qualcosa che per esempio in Italia è difficile da trovare anche in manifestazioni molto più piccole. Non resta che dire: bye bye Primavera, arrivederci al 2011.

Fabio Pozzi
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi, classe 1984, sopravvive alla Brianza velenosa rifugiandosi nella musica. Già che c'è inizia pure a scrivere di concerti e dischi, dapprima in solitaria nella blogosfera, poi approdando a Indie-Eye e su un paio di altri siti.

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