mercoledì, Novembre 6, 2024

Primavera Sound, Barcellona, 27/05/2011

Di ritorno al Parc del Fòrum la sera del 27, ricevo la visita del sublime in forma decisamente inusuale. Chi sognerebbe mai di associare caratteristiche angeliche alla figura ben poco aggraziata di David Thomas? Eppure, quella che sperimento grazie all’ugola d’oro di Cleveland e ai suoi Pere Ubu è una vera è propria epifania. Avevo già avuto modo di osservare come, nel contesto del festival, alcuni veterani brillassero di luce ben più calda rispetto ai loro giovani colleghi. Nel caso dei guastatori americani possiamo ben parlare di lezione, dato che i nostri utilizzano il tempo a loro disposizione con precisi intenti didascalici. The Annotated Modern Dance altro non è che la riproposizione integrale del primo capolavoro della band (compresi i singoli 30 Seconds Over Tokyo e Final Solution), con tanto di accorate spiegazioni sui perché e i percome all’origine di ogni brano. Ovviamente, essendo un personaggio come Thomas a condurre le danze, non possiamo aspettarci reali chiarificazioni: attaccato alla sua fiaschetta di liquore, con gli occhi costantemente chiusi in un’apparenza di sforzo estremo, il nostro paragona donne amate a copertoni abbandonati, disserta di inquinamento ambientale, se la prende con Sting e ci risucchia lentamente all’interno del suo bizzarro universo interiore. Poco male, la musica è già di per sé abbastanza eloquente. Alla fine degli anni ’70, partendo da un canovaccio garage rock, i Pere Ubu hanno violato forme e contenuti tipici del genere tramite innesti selvaggi di avanguardia colta e non-sense. Questa sera possiamo verificare di persona come il risultato di tali sperimentazioni si collochi a metà strada fra il tragico e il comico, in una zona d’ombra dove l’ascoltatore viene prima blandito con temi bislacchi ed orecchiabili, poi trascinato per i piedi in territori da incubo. Se avete presente il sogno di Dumbo ubriaco, quello con gli elefanti rosa, potrete farvi un’idea di ciò che intendo. Chapeu. Dopo un tale sfoggio di stile i Belle & Sebastian mi lasciano totalmente indifferente, così mi dirigo verso l’ATP Stage per assistere all’esibizione dei Low. Le melodie amniotiche generate dalle voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker mi cullano il tempo necessario affinché gli Shellac guadagnino il palco. Partenza col botto, My Black Ass, e a seguire la fucilata Copper. Il reale significato della parola minimalismo si fa strada nel mio cervello, mentre osservo i tre portare la formula del power trio basso/chitarra/batteria ai limiti delle sue possibilità espressive. Steve Albini e soci esplorano da quasi vent’anni le infinite declinazioni di un songwriting elementare e contorto al tempo stesso, suonando pesanti, rocciosi e compatti neanche fossero la controparte degli ZZ Top. Ovviamente lo stilema hard viene corretto secondo coordinate stilistiche post-punk, i vuoti predominano rispetto ai pieni. Nondimeno, i nostri non possono smarcarsi completamente dall’epiteto di dinosauri rock, e non è detto che questo sia un male considerato il risultato. I paragoni con i texani, peraltro, non sono del tutto campati in aria: dal vivo i tre mostrano un atteggiamento ludico, intrattengono il pubblico con battute salaci, non disdegnano virtuosismi (si prenda la parola tenendo conto del contesto in cui è inserita) e divagazioni strumentali. Certo, bisogna considerare che il senso dell’umorismo della band di Chicago non è propriamente politically correct. Nel presentare una composizione nuova di zecca Albini esclama: “Questo pezzo si intitola ‘He Came in You (ti è venuto dentro)’. Probabilmente penserete che descriva un tipico rapporto sessuale, in cui qualcuno penetra qualcun altro e poi gli viene dentro. Ed in effetti parla esattamente di questo!”. In chiusura, una magistrale versione di The End of Radio fornisce ad ogni membro l’opportunità di esprimere al meglio le proprie singolari caratteristiche. Bob Weston reitera senza battere ciglio lo stesso giro di basso per oltre dieci minuti; Albini si lancia in una vibrante semi-improvvisazione al microfono; Todd Trainer – vero protagonista della serata – percuote esclusivamente il rullante per gran parte del brano, esibendosi nelle più scontate pose da rock star prima di sedersi alla batteria e far deflagrare il ritmo. Bisogna attendere fino a tarda notte per assistere ad una performance che si assesti sul medesimo livello di eccellenza: è solo alle 3:45 che i Battles fanno capolino sul Ray-Ban Stage fra gli applausi scroscianti del pubblico. All’appello manca l’ex membro Tyondai Braxton e, dato che nessuno ha ancora avuto modo di ascoltare il recente Gloss Drop, ci si domanda inevitabilmente come i nostri copriranno l’assenza di un personaggio tanto significativo. Fortunatamente Ian Williams, Dave Konopka e John Stanier riescono a scrollarsi di dosso la propria ingombrante eredità, proponendo un energico live set che punta tutto su ritmi danzerecci e melodie a presa rapida. Nel passaggio da quartetto a trio le componenti math-rock sono state fortemente ridimensionate, mentre la deriva dance – da sempre compresa nella cifra stilistica del gruppo (si veda alla voce Atlas) – ha ora modo di infrangere ogni costrizione. Nel complesso, l’attitudine dei newyorchesi si avvicina sempre più a quella IDM che costituisce il marchio di fabbrica in casa Warp. I ritmi programmati supportano il potente drumming di Stanier in misura ben maggiore rispetto al passato, mentre Williams ha ceduto quasi totalmente a Konopka gli oneri di chitarrista, preferendo alternarsi fra sintetizzatori e altre diavolerie elettroniche. Il massiccio uso dei sequencer permette ai tre di sopperire alla mancanza di un cantante in carne ed ossa, trattando la voce alla stregua di un qualunque altro loop: perfettamente in sincrono con la traccia audio, i visi dei guest vocalist interpretano i brani dai mega schermi che circondano il palco. La trovata riflette l’acume tipico del gruppo, contribuendo con un escamotage geniale a deviare la concezione stessa di esibizione dal vivo verso interpretazioni inedite. Mi dirigo verso casa che già albeggia, e penso che tutto va proprio come deve andare.

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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