Parecchia curiosità destava il secondo disco del quartetto fiorentino dei Qube, in seguito all’abbandono del gruppo da parte del batterista Emanuele Fiordellisi (attualmente con unePassante), sostituito adesso nelle esibizioni dal vivo da Sergio Napolitano: dato che le sue ritmiche complesse e avvolgenti costituivano senza dubbio il marchio di fabbrica della band, scegliere come rimpiazzarlo non era certo impresa facile. Il gruppo ha quindi optato per l’autogestione e dietro le pelli si è seduto il chitarrista Francesco Perissi, con ottimi risultati per una serie di ragioni.
In primo luogo, non si avverte alcuno snaturamento forzato del suono rispetto al passato; in secondo luogo, un’inevitabile semplificazione delle parti (senza nulla togliere alla bravura del predecessore) ha di fatto conferito maggior fruibilità alle poliedriche cavalcate che costituiscono il segno distintivo del quartetto, completato da Nàresh Ruotolo alla voce e da Giuseppe Catalanotto al basso. Siamo sempre, comunque, in territori propri di quel calderone che viene definito post-hardcore, che alla fin fine ingloba in sé una buona parte di progressive, di industrial e, nel nostro caso, anche qualche sorpresa. È fin già dal nome che il gruppo suona evocativo, riprendendo la quasi omonima pellicola dell’italo-canadese Vincenzo Natali, diventata (e a ragione) cult: la suggestione dell’atmosfera claustrofobica, eppure in continuo movimento (così come il film cercava l’azione e la tensione verso l’infinito in un set coloratissimo e al tempo stesso soffocante), è ben presente in tutto il disco, giacché a sibili sinistri e rumori bianchi si accompagnano, come detto, divagazioni ondivaghe in tempi dispari e poderosi squarci di screaming vocali. Il viaggio, come definito dagli autori stessi, parte a suon di feedback snodandosi in nervosi arpeggi arabeggianti e deflagrando in ritmiche tronche in Tinnitus, passando poi per suggestioni ambient che non sarebbero dispiaciute a Trent Reznor e David Fincher.
Che quello scelto dai Qube sia un percorso musicale tortuoso non è in discussione, ma l’insidia è da sempre tentatrice, specie quando si distende a rotta di collo in Oudeis, che si avvale anche di inusuali sperimentazioni di liriche in italiano e di contrappunti vocali a tre parti dal sapore medievale.
Al Azif, con i suoi inserti elettronici e le sue parti più distese, fa da apripista al singolone (per modo di dire, dato che la durata sfiora la doppia cifra) El Sion, che si caratterizza per un ampio uso di chorus chitarristici e di storture elettroniche. In sintesi, talvolta la band tende a strafare e rende complessivamente meglio quando cerca di allungare le ritmiche piuttosto che troncarle ma l’ascolto, nel complesso, non ne risente eccessivamente e il disco, per quanto lungo, gira abbastanza bene.
Al passivo, troppa omogeneità nel trattamento del materiale armonico e un certo abuso nello screaming che troppo si rifà a certo nu-metal fin troppo mainstream; all’attivo, una gran perizia tecnica nell’esecuzione, atmosfere nel complesso indovinate e un finale assai coraggioso à la Cure, tre accordi di richiamo barocco, che si concludono con un pianissimo di chitarra a simulare un’orchestra di archi sintetici da desolazione assoluta, spazzata via da un gelido vento invernale. Il rischio, inevitabile in questi casi, di un prodotto come questo è che rimanga destinato ad una nicchia di già iniziati al genere (o “ai generi”, che la band mescola, ad ogni modo, con sapienza): per chi vi si accosta da profano e sta alle regole del gioco, è un’esperienza che non manca di una sorta di seducente fascino oscuro.