Qualunque manifestazione di espressione artistica può definirsi “classico” ogni qualvolta entra in una sorta di patrimonio collettivo: nello specifico, allorquando tale manifestazione viene in essere, riesce ad abbracciare l’interesse delle masse e nel nostro caso, a riunire geograficamente una valanga di gente.
Ebbene, il fenomeno Radiohead ha significato proprio questo per Firenze, città che da sempre si spacca in “tipi”, “gruppi”, “circoli” e mode: riaggregazione, possibilità e facoltà di interazione che in altri contesti nemmeno ti immagini.
È del resto innegabile che i cinque di Oxford, nelle molteplici rotte stilistiche intraprese, nei cambi drastici di approccio alla materia musicale che più di una volta rischiavano di sconcertare i fan, hanno saputo comunque mantenere sempre più che desto l’interesse attorno a sé, nonostante pure fossero reduci dal rilascio di due album, per così dire, non esattamente all’altezza dei lavori precedenti.
Si è potuto dunque leggere, nelle migliaia di persone presenti (davvero sorprendente la partecipazione e ottima l’organizzazione) anche qualcosa di più di un affetto incondizionato nei confronti della band, sebbene sul web fossero piovuti annunci di vendita del biglietto sino a poche ore prima dell’evento.
E in un certo senso sono neoclassici (non userei di buon grado il prefisso “post”) perché nonostante il sempre agognato eclettismo di cui sopra, si sono guadagnati, e non da adesso, lo status della più grande rockband del mondo. Non certo classici dunque in senso formale.
Forse non sono i migliori, ma “grandi” lo sono davvero e grande è tutto ciò che li circonda, dallo show messo in piedi all’attenzione mediatica, ben espressa anche qui in città tanto che la sera precedente è stato messo in piedi un concerto tributo con vari artisti della città, indubbiamente riuscito, sia pure con esiti inevitabilmente alterni.
Invero, la sintesi migliore del senso di questo evento l’ha espressa il mio amico e qui su indie-eye anche collega, Federico Fragasso, il quale, mentre ci avviavamo con scarso anticipo verso il pratone, che avremmo trovato straripante di umanità realmente trasversale, ha commentato: “Sai, alla fine è un po’ come andare a vedere i Led Zeppelin nel ‘75. Toh, ‘76. Poi, oh, non è che dei Led Zeppelin me ne sia mai fregato molto, però e che fai? Non li vai a vedere? Magari sei a Londra, ma anche dopo che è morto Bonham, e ti dicono che ci sono ‘sti Sex Pistols, però diamine, sono pur sempre i Led Zeppelin”.
Appurato che comunque sono i Radiohead, non c’è da dimenticarsi che in apertura suona Caribou, del quale non ho certo dimenticato Andorra, del quale ho amato a dismisura Swim e che si presenta sul palco alle otto e un quarto con precisione nazista.
Ballare con musica decente, forse l’obiettivo di Snaith, almeno della sua ultima produzione, è davvero solo questo. Centratissimo. Pur con volumi indecentemente bassi (e certo non eravamo esattamente nella posizione di poter essere assordati) la mezzora che viene concessa a lui e alla band è davvero scoppiettante.
Psichedelia assolutamente non pretenziosa, cassa dritta e via andare, con folate di campionatori che non soverchiano mai il pezzo. Mezzora è troppo poco e si rimane con l’amaro per Odessa e Sun scivolate via troppo presto.
Trascorsa l’attesa delle nove (9) birre spillate integralmente destinate al tizio che ci precedeva, ove il sussulto di morigeratezza che il lunedì successivo ci impone ci limita le bevute nel numero di tre, parte giusto in tempo Bloom e l’impatto è sinceramente sorprendente.
Tanto fredda sul disco quanto trascinante dal vivo, l’incipit di The King of Limbs, portato avanti dalle dipanate melodie di Yorke e da un basso che puntella il pezzo come trampoli su una distesa di micro-campioni, mostra qual è il nuovo corso della band britannica: dare principale risalto agli incastri ritmici, nei quali è ovvio che reciti un ruolo fondamentale il secondo batterista Clive Deamer (già con i Portishead) che a dirla tutta risulta almeno due gradini sopra Phil Selway, invero mai troppo a suo agio nelle variazioni dei passaggi.
Alternandosi fra percussioni elettroniche e batteria acustica e dalla spiccata impostazione jazzistica, è veramente Deamer l’anima ritmica del concerto, anche se non sempre è necessario occupare ogni sedicesimo della battuta, quando, addirittura, talvolta non sono necessarie nemmeno due batterie (vedi più avanti Airbag e Planet Telex, comunque apparse un po’ appesantite e non esattamente ben incastrate in scaletta).
Esemplare è invece in questo senso Colin Greenwood, bassista straordinario per come sa scegliere quando non suonare. Grazie a lui, il tiro del pezzo è sempre salvo e la morbidezza del suo tocco contribuisce per almeno un terzo alla bellezza e alla pulizia del suono della band.
Segue l’ultimo dei capolavori radioheadiani, una There There che conquista la folla in quel suo ibrido di tribalismo e distese melodiche, anche se Yorke in eccesso di foga non la canta come in altri contesti.
Seguono poi tre variazioni sul tema neopsichedelia: la nervosa 15 Step (stupenda e anche qui l’esito non era scontato) la quieta Arpeggi (il pezzo lo porta avanti tutto Jonny Greenwood, Yorke va avanti per due giri poi lascia come per dire “sì, vabbè, hai ragione te…”) e una Kid A che esalta un suo inedito potenziale danzereccio.
Fino a qui tutto bellissimo e ben oltre le aspettative per molti.
Poi iniziano le (piccole) magagne la cui origine ad onor del vero sta nei pezzi stessi e non nella prassi esecutiva, comunque qui non impeccabile. Si converrà che era oggettivamente impossibile portare a livello di capolavori pezzi che stanno più o meno su un fazzoletto quali Staircase e Separator, o la stessa Gloaming, con frequenze raggiunte da stirare i peli delle ginocchia, inframezzati, però da una Morning Mr. Magpie tirata allo spasimo nei suoi stoppati di chitarra (che peccato però che i nuovi Radiohead sembrino apprezzare solo il 4/4…) con Yorke che fa stare sulle spine un po’ tutti da quanto gli ciondola il capo, sul rischio di staccarsi da un istante all’altro.
Dopo il trittico sulla psichedelia ecco quello sulla melodia e qui effettivamente Yorke ha tutte le sue ottime carte da giocarsi. Richiede gentilmente un pianoforte (e che ci vuole?) e attacca una You And Whose Army? da spellarsi le mani (Firenze viene letteralmente giù, cantano TUTTI e non è certo Creep) prosegue con una Nude di una delicatezza struggente (i due Greenwood sono clamorosi, l’uno nel suo basso puntato, l’altro nel “risintetizzare” le sue tessiture d’archi, peccato che Selway sembri di non essersi minimamente sforzato a tirar giù una parte decente) e duetta con Ed O’Brien sulle melodie intrecciate e paritarie dell’inedito Identikit (che anch’esso non è esattamente un pezzo memorabile).
Riguardo O’Brien si ha l’impressione che sia davvero sempre un po’ sacrificato, perché 1) a livello vocale è ottimo e anche quando si vola sulle ottave alte, con Yorke se la gioca e si incastra benissimo, soprattutto per la differenza di timbro e 2) fa il cosiddetto lavoro sporco di centrocampo, ossia reggere l’impianto armonico dei pezzi. Orbene, vederlo suonare un cembalino è un po’ avvilente.
Si prosegue: Lotus Flower è tutto sommato un pezzo un po’ tamarro suonato così e cantato un po’ tirato via, ma è il momento della hit, si vociferava Exit Music (For A Film) che già non mi entusiasmava, e va pure peggio: arriva Karma Police che è un plagio beatlesiano nemmeno troppo mascherato e che rischiava già allora di risultare troppo generazionale.
Ma tutto va oltre l’imprevedibile: spintomi ormai nel mezzo, aiutato dal mio fisico esile ma nella specie assai funzionale, si leva un urlo di sincera ma quantomai liberatoria disperazione da parte di migliaia di persone, di ogni estrazione (transgenerazionalità acclarata) che cantano “di essersi persi là per un minuto”. E il bello è che in questa gioia catartica non risiede una briciola di masochismo, giacché nessuno dei presenti (almeno ci si augura) ha abbracciato, come invece accade in altri contesti nostrani, l’etica dei perdenti autocompiaciuti e consolatori. Forse ci si perde da soli da qualche parte per trovarsi tutti insieme, per recuperare uno straccio di solidarietà e collettività? Preso dal dubbio che sia davvero così e sconvolto da queste (certamente pur semplicistiche) implicazioni metatestuali, inevitabilmente ripongo da parte il pudore, canto anch’io e non mi controllo a condotti lacrimari ormai infranti.
Riprendersi subito, imperativo, e niente di meglio per sfogarsi che una Feral rivestita di abiti quasi minimal-techno e una Idioteque che, spogliata del ghiaccio e frantumata ritmicamente con bit e beat impazziti, fa ballare tutti e segna il trionfo del delirio.
Poteva benissimo finire qua, ma è tempo della prima rentrée, sinceramente sbagliata. Detto già di Airbag e Planet Telex, The Daily Mail rischia di essere ricordata solo per la dedica che Yorke riserva a Berlusconi e non certo per la sua melodia da primi Coldplay e Bodysnatchers è francamente un pezzo orrendo.
Ma ecco che la band piazza un altro colpo (al cuore) da novanta. Greenwood va alle Onde Martenot e sfodera i due lamenti iniziali di How to Disappear Completely, che sarebbe perfetta ed eseguita divinamente se non fosse per un Selway talmente terrorizzato di portarsi via il pezzo da rischiare, di contro, di appesantirlo.
Secondo bis, che vede solo Yorke e Greenwood protagonisti fra chitarre e loop vocali (nei quali maledettamente entra pure l’handclapping del pubblico) di una sin troppo essenziale Give Up The Ghost (ma perché non Codex?…) e una superflua Reckoner che segna l’ingresso del resto della band.
Tanto abbiamo capito che stasera si deve ballare: ergo, mascherandola con una intro finta da farla sembrare un altro inedito, bastano quattro note di piano Rhodes per rimettere ogni cosa al suo posto. Giusto che si finisca con cassa dritta e Kaoss Pad dopo due ore di “un eccezionale show di comuni mortali” (così commentava a tarda notte Clemente Biancalani dei Bad Apple Sons), perché sono umani e sbagliano anche loro, ma la metterei così, non imbrogliano e i picchi emotivi hanno comunque battuto gli avversari. Luci e scenografie e qui un pensiero non può che andare alla tragica scomparsa del tecnico Scott Johnson, all’importanza che rivestiva nella realizzazione dello show e al fatto che morti come queste non sono incidenti ma hanno sempre un imputato penalmente responsabile.
Non ho fatto, una volta tanto, né una foto né un video, credevo giusto in questa trasversalità tenersi (ognuno?) il proprio ricordo personale, che non deve necessariamente coincidere con quanto avvenuto veramente, di questo frammento di storia affettiva, di questa band che volente o nolente, dal punto di vista artistico, ha segnato un’epoca e probabilmente lo sta ancora facendo.
Loro sul palco sono felicissimi, ci baciano e salutano. Noi sotto, ma comunque accanto a loro, ringraziamo. Tanto. Ma davvero.