mercoledì, Novembre 20, 2024

S. Carey – Range of light: la recensione

John Muir, in  uno dei suoi testi più belli a metà tra natura e contemplazione pubblicato nel 1912, descrive la valle dello Yosemite e tutto quello che la circonda come un territorio investito da numerose manifestazioni della luce.  La valle della California ai suoi piedi “splende come un lago fatto di puro splendore”; le cascate tutte intorno vengono dipinte dalle parole di Muir con colori iridescenti; le rocce acquisiscono proprietà riflettenti; la Sierra Nevada Californiana in particolare, agli occhi del visionario conservazionista, non sembra “vestita di luce”, ma completamente costituita da essa, tanto da affidarle l’intera gamma delle radiazioni. “Range of light” è in questo senso un’espressione di Muir che non documenta semplicemente l’immersione del “poeta” naturalista nella “wilderness”, ma ne descrive gli epifenomeni come un contatto tra questa libertà incontaminata e una dimensione trascendente; la “gamma di luce” è quindi l’insieme di un numero indefinito di esperienze percettive, che dallo sprazzo al barbaglio, descrivono le manifestazioni terrene di Dio.

Il secondo album solista di S. Carey è fortemente influenzato dal pensiero del naturalista di origini scozzesi; quella di Muir è una presenza che non si limita alla citazione del titolo scelta dal musicista di Eau Claire, ma investe tutto il corpus delle liriche, scritte con una forma poetica che abbandona progressivamente la relazione tra oggetto e denotazione, per diventare visione e contemplazione metafisica, suono di una parola pre-formale, che in un percorso ideale, mette insieme le intuizioni più astratte della Beat Generation con il pensiero dello stesso Muir.

I testi di “Range of light” sono infestati da parole, fonemi, apparizioni, fenomeni percettivi, vicini alla prosa di Muir, già di per se capace di mutare la forma del racconto in un’astrazione visionaria più vicina alla poesia. S. Carey lavora certamente sulla commozione del racconto interiore, attraverso un “folktelling” che si inserisce nella tradizione americana più contemplativa, ma insiste contemporaneamente sul valore fonetico della parola; è il caso di Creaking e Alpenglow, ma sopratutto di Fleeting Light, dove la descrizione si dissolve, e la natura per come la conosciamo diventa suono, colore, timbro, fenomeno puro.

Ci sorprende allora, positivamente, la scelta di S. Carey di continuare il discorso interrotto con il precedente All We Grow, accentuando la derivazione Jazzistica del suo comporre, ma allo stesso tempo abbandonando l’astrazione radicale di alcune tracce contenute nel primo album pubblicato per JagJaguwar; perchè se le critiche che venivano mosse al batterista dei Bon Iver si riferivano ad una presunta mancanza di solidità della scrittura, “Range of light” integra le derive più astratte in nove brani ispiratissimi e  di sorprendente equilibrio compositivo.

Ancora una volta, l’influenza di Justin Vernon, è relativa ad alcune affinità del tutto marginali, mentre l’anima percussiva di Carey rimane un elemento ossessivo ma sotterraneo, ancora più vicino al Jazzin’ visionario degli ultimi Talk Talk, in una forma ideale e intuitiva, senza per questo imitarne l’allure sonora, tranne forse nell’episodio di apertura, Glass/Film

La natura allora, da fonema, diventa “fono”, come nella pioggia che da vita a Creaking, la luce descritta dai loop di Radiant, la forma ascensionale di Alpenglow, il duello tra arpa e dulcimer in Fleeting light, uno strano ibrido tra folk e ritmi latini che ancora una volta sale verso l’esplosione di un bagliore.

Ma prima di tutto questo,  “Range of light” è un’infinita e coraggiosa lettera d’amore, sospesa tra gioia e sofferenza, sembra testimoniare uno strappo netto dalla società connettiva che abitiamo tutti quanti; alla ricerca di una dimensione che non si arrenda ad un isolazionismo senza uscita, senza per questo ridurne la complessa ambivalenza. È un dissidio chiarissimo nell’utilizzo che Carey fa delle parole, spesso attraversate dalla forza del contrasto, la stessa che nello splendido video realizzato per Fire-Scene e diretto da Joe Baughman, geniale fotografo di paesaggi, trova la bellezza tra la vita e la morte. “Uscire” come aveva scoperto Muir, in realtà vuol dire “entrare”.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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