È davvero una benedizione che si abbia a disposizione un bel po’ di tempo per un’intervista. Se poi il luogo deputato è un’enoteca nel quartiere romano Monti, se ci si sposta all’esterno per una sigaretta e si continua a chiacchierare con il Colosseo e il tramonto sullo sfondo, l’ispirazione non manca per toccare gli argomenti più svariati. Sadness is a blessing, recita un irresistibile pezzo pop del momento, e un po’ anche di questo si parla: non c’è solo la gioia dell’innamoramento, ma paradossalmente anche la gioia di un’attesa vissuta con romanticismo. Il nuovo disco di Scott William Matthew, Gallantry’s Favorite Son (Glitterhouse), scava ancora nel profondo, come il cantautore australiano ha dimostrato di saper fare elegantemente, col suo timbro inconfondibile e le corde del suo inseparabile ukulele, ma sa anche rilassarsi in superficie, raccontando la favola di una crescita, di un’eterna speranza che trova nell’amore tutto il suo mondo. Scott arriva a Roma per due concerti, il primo per l’ultima delle Sunset Sessions, realizzate nel bucolico giardino del Circolo degli artisti in collaborazione con Fandango, il secondo un house concert mozzafiato da perfetta nottata romana. Entrambi i concerti sono aperti dalla grazia ed eleganza di Sylvie Lewis, cantautrice folk inglese attiva a Los Angeles, diventata amica di Scott dopo un incontro casuale in quel di Brooklyn. I due si uniscono sul palco in più di un’occasione e l’amalgama è davvero perfetta. Scott suona solo, alternando ukulele e chitarra: oltre ai pezzi del nuovo album, qualche imprescindibile rispolverata dai passati e un generoso numero di cover, dagli Smiths a Rihanna, passando per i Radiohead. A prescindere dal mood del singolo brano è suggestivo percepire il silenzio ammirato del pubblico crearsi attorno allo storyteller ed è davvero un piacere vedere come Scott abbia ormai un seguito di veri ammiratori nel nostro paese. Generosità e voglia di raccontarsi non gli mancano davvero: eccone un saggio in una chiacchierata avvenuta a metà tra i due eventi.
Quando hai iniziato a scrivere le canzoni per il tuo nuovo album, Gallantry’s Favorite Son?
La scrittura per me è qualcosa di molto sporadico, non mi capita mai di scrivere di continuo. Al contempo è un processo assolutamente spontaneo, forse perché non ne capisco affatto i meccanismi di funzionamento. La maggior parte dei pezzi di questo nuovo disco sono nati nell’arco di un anno e mezzo, due anni. Alcuni sono nati in strada, alcuni in Australia quando ci sono tornato nel 2009, altri a New York, un po’ dappertutto. Ciò di cui parlo sono sempre le relazioni interpersonali, quindi è facile per me attingere a tutti i luoghi e a tutte le situazioni in cui mi ritrovo ad osservarle. È raro che ci sia qualcosa di davvero specifico, legato ai luoghi nei miei pezzi…
Credo che quest’album in qualche modo scalfisca il luogo comune che ti vede come un songwriter triste, talvolta persino depresso, un aspetto che la stampa ha messo in rilievo in più occasioni. I pezzi tristi ci sono, ovviamente, ma c’è una manciata di canzoni a tutti gli effetti gioiose e vivaci, ancor più che nel disco precedente. Questa apertura di mood è stata casuale, intenzionale o è semplicemente accaduto?
Non è stato intenzionale! Non mi ero neanche reso conto di avere più canzoni spensierate nell’album prima che fosse la stampa a farmelo notare! Come dici ci sono anche canzoni tristi… per qualche motivo le prime spiccano di più in questo album. Di certo non è stato premeditato. Quando mi viene fatto notare a volte mi viene da pensare di essere diventato davvero più felice, a questo punto! In genere non sono abituato ad analizzare quello che faccio, lo faccio e basta! Probabilmente mi sento un po’ più pacificato, soddisfatto e credo che abbia a che fare col crescere e prendere maggiore consapevolezza di chi tu sia. Ma non penso di essere cambiato drasticamente, forse un piccolo cambiamento.
[Facciamo un brindisi] Nella press release dell’album c’è questa tua affermazione: “Con questo disco ho raggiunto un accordo con me stesso”. Affermazione piuttosto illuminante!
Ma, non saprei… Non sono convinto che si possa mai raggiungere un accordo totale con se stessi e spero in qualche modo che non si possa raggiungere. La cosa stupenda della vita è che è un viaggio continuo, pieno di ripartenze, un mistero, un’evoluzione. Essere completamente sicuri di se stessi e di cosa si è… se fosse davvero così non credo sarei in grado di scrivere ancora canzoni. Come ho detto prima penso che quell’affermazione si riferisca al crescere e a un assumere maggior consapevolezza. Cosa che è avvenuta sicuramente con la mia sessualità e il mio modo di esprimerla. C’è stato un periodo della mia vita in cui mi avrebbe offeso essere etichettato come un artista gay, lasciando che fosse solo la mia sessualità a definirmi, ma più il tempo avanza e più mi rendo conto che è assolutamente ok concedere a se stessi di essere ciò che si è, continuare a mettersi in gioco e lottare. Quindi sì, in altre parole credo proprio di essere più pacificato con me stesso… nonostante non abbia ancora trovato l’amore, e ciò è un’ottima cosa, [ride] perché mi permette di continuare a scrivere canzoni a riguardo. Ho avuto tante stupende opportunità di essere me stesso, di esprimere me stesso e di essere apprezzato per quello che sono, ma forse ancora non riesco a fare bene il punto della situazione, capire ciò che intercorre tra la mia musica e ciò che sento ed esprimo secondo il mio desiderio.
Nel titolo dell’album usi questa parola decisamente old fashioned, “galanteria”. Oltre ai significati che appartengono alla sfera del corteggiamento, vuol dire anche “coraggioso”. E forse non è un caso che in francese galant volesse anticamente anche dire “felice”, “festoso”. Cosa intendi quando dici in Sweet Kiss in The Afterlife che vorresti essere Gallanty’s Favourite Son?
Sì, ha un sacco di significati. Credo significhi essere cavalleresco, quindi gentile, coraggioso. Quindi nel testo della canzone desidero essere tale, romantico in qualche modo. Desidero essere cresciuto da quel tipo di emozioni e saperle rispettare sempre.
A proposito dell’album precedente (There Is an Ocean That Divides) hai dichiarato di volere che i tuoi pezzi esprimessero la presenza di più corpi, quelli dei tuoi musicisti, rispetto ai toni più “solipsistici” del tuo primo disco. A giudicare dai sontuosi arrangiamenti e dalle articolate strumentazioni si può dire che sia accaduto anche questa volta, vero?
Assolutamente. È altamente narcisistico che io incida solo a mio nome. Ho decisamente bisogno di un piccolo, ma fondamentale gruppo di persone attorno a me per realizzare quello che voglio. Al contempo le canzoni sono proprio mie. Per me fare musica è molto personale. In qualche modo non mi sento neanche un artista, un musicista… non ho mai seguito una preparazione tecnica e non ho mai approcciato la musica a livello “intellettuale”, ma sempre e solo a livello emozionale. Al contempo ho bisogno di sentirmi a mio agio nel processo creativo, quindi mi circondo di persone che amo davvero, quindi tutti i musicisti che lavorano agli album sono miei amici. Sono davvero fortunato.
Questa dimensione di intimità l’ho più volte percepita anche nell’interazione coi tuoi musicisti dal vivo… in particolare con Marisol [Limon Martinez, al piano nel suo ultimo tour]. Il pezzo There is an Ocean That Divides nasce come una tua poesia da lei musicata. Come è nato il tutto?
Io non scrivo mai poesia, mi esprimo solo nelle canzoni. Quell’insieme di parole è nato in funzione di un pezzo, ha solo subito un processo diverso. Non scrivo mai i testi prima della musica, è sempre tutto molto simultaneo per me. In quel caso mi ritrovai con quelle parole, non so come mai… o meglio, lo so, perché ero completamente innamorato e avevo bisogno di esprimerlo [ride]. Io e Marisol stavamo provando e l’intesa tra i suoi accordi e le parole è stata fulminea, facile.
Alle Sunset Sessions eri solo. Chi sarà con te nel resto del tour?
Ci saranno Sam Taylor, da Londra, che suona il violoncello ed è diventato una delle mie persone preferite dell’intero pianeta e ancora Eugene Lemcio, che è sempre stato con me fin dal primo album. Noi tre.
Ho letto da qualche parte che Burt Bacharach è tra le influenze musicali di quest’album. Mi chiedevo se fosse stato un’influenza costante negli anni, visto che in un tuo progetto passato, Songs To Drink and Drive By hai coverizzato Walk on By.
Oddio, un sacco di tempo fa! Comunque sì, lo adoro! Non sono sicuro che sia stato un’influenza costante, ma di certo è un artista che ho sempre ammirato. Ho tirato fuori il suo nome a proposito del mio pezzo The Wonder of Falling in Love. Volevo fare una canzone pop spensierata, che non andasse troppo in profondità! È stato difficile, è davvero difficile scrivere una canzone pop, ci abbiamo davvero faticato un sacco in fase di post-produzione!
Parlando di pop, mi chiedevo quali tappe, se ci sono, hanno segnato l’evoluzione del tuo gusto musicale. Da ribelle punk-rock a quiet noise maker…
[Ride] Era la mia prima press release…
Beh, era una definizione estrosa, per questo ha funzionato!
Vero? Dunque, ho sempre ascoltato e ancora ascolto generi musicali molto diversi. Quindi il mio gusto è cambiato, ma neanche troppo. Ti rivelo una cosa: non ascolto molta musica! È strano vero?
Un po’.
A volte quasi mi vergogno, perché penso che dovrei. Quando inizi a fare musica diventa un elemento talmente personale… mi riesce quasi impossibile descriverlo. Per quanto riguarda il fare musica mi sento davvero a mio agio in questo momento della mia vita.
Tornando dunque al fare musica e alle performance, l’assenza della batteria continua ad essere un elemento di stimolo per il tuo ensemble…
Esattamente. Da un punto di vista meramente pratico non avere un drumkit e un batterista rende tutto più facile [ride]. Da un punto di vista emozionale, diciamo così, questa assenza permette alle canzoni e alla nostra performance di avere accesso a una grande intimità, intimità che io voglio ci sia per davvero. Penso che la batteria ci si ritroverebbe in mezzo, capisci? Totalmente non necessaria. Ed è assurdo perché quando vado ai concerti sono ossessionato dal batterista! Forse è perché mi spiace che il ritmo non sia così radicato nel mio inconscio, non so! Abbiamo usato comunque la batteria nell’ultimo disco, mooolto minimale, tanto che a un ascolto superficiale non te ne rendi conto.
Passando ai testi. Questa non è una domanda personale, ma “metapersonale”. Hai detto più volte che i tuoi testi sono costantemente radicati nella tua esperienza autobiografica. Ti capita mai di sentirti “esposto”, sensazione che un’intera scuola di songwriter ha sempre scongiurato ribadendo la natura finzionale dei propri testi o pensi che in fin dei conti questo approccio onesto, se vuoi, ripaghi sempre?
Mi sento esposto, ma quello è l’obiettivo. Cerco con tutte le mie energie di essere il più onesto possibile. E non è facile essere un uomo onesto. Cerco di essere onesto nelle mie emozioni e credo non ci sia niente di cui vergognarsi in questo. Quello che lascio ascoltare al mondo è solo una rappresentazione di ciò che in fin dei conti tutti sentono. Ho solo scelto di esprimerlo, abbracciare questo obiettivo e direi che mi diverte anche. Credo che una vita senza emozioni e senza uno spirito puro sia orribile. Come mi sforzo di essere onesto nella vita così cerco di esserlo nel mio songwriting. Quindi mi sento più onesto che esposto, sì.
Una cosa che mi ha colpito molto di questo disco è l’idea del desiderio, dell’attesa come elementi postivi. In genere non è così immediato che la mancanza d’amore e la sua ricerca vengano considerati aspetti positivi. Sullo sfondo di una vita dai tempi frenetici vengono non sempre, ma spesso identificati come uno spreco di energie. In quest’album l’attesa torna ad essere parte del romance.
Oh, mi fa molto piacere sentirtelo dire. In quest’album è proprio così, cerco di trasformare l’attesa e il desiderio in qualcosa di assolutamente non negativo, svilente e ho anche cercato di convincere me stesso che non c’è alcun problema a percepire questi sentimenti ed essere tuttavia ancora solo. Non scelgo di diventare cinico, mi lascio aperta l’opportunità di essere ottimista, di abbracciare la solitudine senza considerarla la peggior cosa al mondo.
Il pezzo Sinking è di intensità rara. È l’unico che hai scritto in Australia?
Metà l’ho scritto a Roma, metà in Australia. Ah, è il mio pezzo preferito. Quanto lo amo! Sono davvero felice che quella canzone esista, perché l’ho iniziata a scrivere in un momento di vero amore e l’ho finita nella mia terra natale, dove avevo memorie davvero diverse. È come se avessi tentato di unire in un unico pezzo i miei desideri di adulto a quelli di me bambino, al mistero di cosa sarei diventato. Ecco in quel brano ho proprio la sensazione di aver detto proprio quello che avevo intenzione di dire.
L’ultimo brano No Place Called Hell sembra quasi un nuovo esperimento. Suona come un inno, me lo immagino perfetto per un raduno Radical Faeries…
[Ride]. Già!
Anche in questo disco un bella critica alla Chiesa…
Sì. Voglio dire, non sono un songwriter poi così profondo, volevo che quel pezzo fosse allegro, non volevo essere criptico, ma il più diretto possibile. Ma non volevo essere poetico, proprio no.
La poesia ha lasciato il posto alla rabbia.
Esatto. Pura rabbia. Quando l’ho scritta, anche se questa canzone non parla di quelle circostanze in particolare, c’era molta attenzione da parte dei media per episodi di suicidio di giovani teenager gay. Ed è una cosa che mi spezza davvero il cuore. Mi viene da piangere in questo istante al solo pensarci. Come ci si può anche lontanamente permettere di svalutare questi ragazzini? Questa è una mia piccola risposta a tutto ciò. È il mio modo di dire “Non c’è alcun inferno, non farlo”. Al contempo non voglio giudicare il credo delle persone, ma inizio a giudicare pesantemente se il loro credo inizia a uccidere le persone.
[Dopo una lunga pausa] Parliamo delle cover che fai dal vivo, sono tante e spesso inaspettate. La cover di Only Girl (In The World) di Rihanna… hai accennato durante il concerto al fatto che sia stata parte di un progetto. Di che si tratta?
C’è una straordinaria attrice comica di New York, Bridget Everett. Ha uno show che si chiama Our Hit Parade in cui oltre ad esibirsi lei stessa chiama dei performer della città per fare delle cover di pezzi della Top 10. In genere sempre artisti che normalmente non farebbero cover del genere. Ho già fatto All The Lovers di Kylie Minogue.
Geniale.
Adoro Kylie. Quella di Rihanna è l’ultima che ho fatto. Il testo è ridicolo. Quando dice “I want you to love me like I’m a hot ride”, voglio dire, ma come si fa? [Ride]. Ovviamente il mio tentativo di renderla disperata è ironico. Sto mettendo insieme un album di cover, sì sì. Non vedo l’ora di farlo e sarà piuttosto facile. L’ultimo disco ha portato con sé alquanto stress. Voglio tornare a fare un album che sia divertente da mettere insieme. Con l’album di cover c’è meno pressione, per altro. E poi voglio tornare agli elementi essenziali, voce, chitarra, ukulele… mettere da parte gli arrangiamenti sontuosi per un po’. Uh, non vedo l’ora.
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