La parabola della carriera di Noel Scott Angel, universalmente conosciuto come Scott Walker, ha seguito, approssimativamente, una proporzionalità diretta intercorrente fra il grado di immersione nell’orrore della condizione umana da parte dell’autore e la qualità raggiunta dalle sue opere. Già nella prima parte dell’ultraquarantennale percorso artistico del musicista (Walker compie 70 anni il 9 gennaio), un album come Scott 4, che vedeva il suo approccio da crooner navigato articolarsi in poetiche ben più ostiche e poco “commerciali”, era un oggetto pressoché unico, un album ben lontano dal concetto di folk cantautorale americano in senso tradizionale e assai coraggioso nei suoi nerissimi risvolti.
Dovettero passare più di 25 anni fino a quando la pubblicazione di Tilt (Fontana, 1995), con la sconvolgente parentesi di Climate of Hunter del 1984, gettò una nuova luce su un autore da troppo tempo imbrigliato da parte della critica nelle maglie dell’etichetta di genere.
L’album, insieme al coevo Outside di David Bowie (a detta di chi scrive, il suo migliore in assoluto), con il quale presenta più di un’affinità, nel suo visionario universo sonoro (e ben nota era l’ammirazione e la stima reciproca fra i due), è un’epopea nera sulla fine dell’umanità e, dal punto di vista formale, il principio della destrutturazione degli stilemi della canzone pop.
Accostando litanie declamate a tappeti orchestrali da funerali in pompa magna (Farmer in the City, in memoria di Pier Paolo Pasolini, a metà strada fra Samuel Barber e melodie quasi rinascimentali), voci contraffatte in lontananza e squarci industriali non lontani dalle aggressioni sonore tipiche dei Nine Inch Nails (The Cockfighter), primordiali percussioni da plotone di esecuzione (Bouncer See Bouncer), cliché quasi etnici in chiave elettronica e/o postmoderna (Manhattan e Face on Breast), Walker inquadra perfettamente le sue liriche visionarie in un agglomerato timbrico multiforme ed autenticamente inquietante. Il suo cantato, pur ancora inserito in un contesto tonale e melodico in senso lato, assume ancora maggior rilievo guidando il sistema sonoro, ambizioso ed imponente, venato da una grandeur cinematografica ancor prima che prettamente musicale, tanta è la potenza evocativa della narrazione. Pur rimanendo intatto il fascino dell’ascolto, è difatti impossibile comprendere appieno la grandezza di questo lavoro senza consultarne i testi.
Tutti questi elementi trovano il loro apice nell’oscuro e astratto “incubo concreto” del narcotraffico (Bolivia ‘95) e nell’elegia tutta americana di Patriot (A Single). Negli ultimi due pezzi dominano elementi ritmici e chitarristici, nei quali la tensione si scioglie in una cupa cavalcata al rallentatore (la title track) e in rarefatti arpeggi (Rosary), sancendo una chiusura di un album dai toni violenti ed oppressivi, che all’epoca sconvolse un mainstream stordito dal ritorno del britpop. Forse appena troppo “anni ‘90” nella resa di strumenti più classicamente “rock” quali basso e batteria, ma di perfetta coerenza narrativa e omogeneità assoluta nel mescolare colori così distanti fra loro.
Altri undici anni occorrono perché Walker dia alle stampe un nuovo lavoro, sotto label 4AD, nel quale approfondisce ulteriormente le già ardite scelte adottate nel precedente.