Varcare i limiti di un ascolto così estremo pareva un compito decisamente arduo e il recentissimo Bish Bosch, rilasciato il 4 dicembre 2012 sempre per 4AD, appare proseguire, sebbene siano passati quasi sette anni, sulle orme del suo predecessore, tanto che ‘See You Don’t Bump His Head‘ ne ruba quasi l’incipit, con cassa elettronica incalzante inframezzata da chitarre quasi kingcrimsoniane, a far da sostegno al cantato declamato.
Ma se Tilt costituiva l’input di avvio (il corto circuito) e The Drift lo smarrimento, Bish Bosch ambisce ad essere il definitivo punto di non ritorno attraverso l’Universo e l’Assoluto, giacché, se i primi due capitoli vivevano di tentazioni escatologiche, quest’ultimo si nutre di suggestioni addirittura cosmologiche sotto forma di libere associazioni visive che rifuggono qualsiasi accenno di narrazione lineare.
Corps de Blah ne è già la sintesi. L’uomo comincia chiedendo perdono a Dio a causa della propria degenerazione, rievoca la Jihad, la Duma, le tribù degli Indiani d’America in quadri allucinati, sino ad immaginare poi corpi celesti, mentre la partitura si frammenta fra latrati di cani, peti (o qualcosa di assai simile…), machete, archi estatici improvvisi, martelli. Dieci minuti che rischiano di essere la cosa musicalmente più folle degli ultimi trent’anni, ma affrontata ed interpretata con una serietà ed una credibilità tali da respingere il rischio del ridicolo involontario.
Phrasing si divide fra hard-funk e musica caraibica, con uno sconvolgente accostamento con il cantato elegiaco di Walker e le tessiture di synth e di chitarra.
Altro episodio altrove impensabile è il poema SDSS14+13B (Zercon, A Flagpole Sitter), epopea di un corpo stellare di nuova scoperta, sospeso fra vuoti cosmici e declamazioni di numeri romani, questa volta strutturalmente più simile ad un tema con variazioni contaminato con una “forma sonata” contemporanea, nel quale guidano, di volta in volta, acustica, elettrica, sax baritono, archi e fiati.
Il “singolo” Epiczootics! pone maggiormente in risalto elementi ritmici fra handclapping, schiocchi di dita, terzinati di batteria (con voli pindarici di tromba) e un cabarettistico sax basso e segna lo spartiacque per un reindirizzamento del disco su binari più accessibili, bilanciati dalle impronte quasi dark-ambient della successiva Dimple ed al ritorno alle lame affilate ed alla musica concreto-elettronica di Tar.
Per quanto suggestiva e strisciante, Pilgrim?, che evoca topi, rane toro e altre forme animali mostruose, semplicemente traghetta verso la conclusiva The Day the “Conducator” Died (An Xmas Song), narrazione astratta dell’esecuzione del dittatore romeno Niculae Ceausescu il 25 dicembre 1989, minimale e quasi melodica nelle aperture di chitarra elettrica e sonagli, dark ballad natalizia che si concede perfino una citazione di Jingle Bells sul finale.
Pur rimanendo un autore assolutamente unico nel panorama contemporaneo, al quale va attribuito il coraggio di scelte artistiche insieme arditissime ed estremamente coerenti, Walker, per la prima volta nella sua recente carriera, rischia di apparire manierato e non in grado di mettere a fuoco le proprie ossessioni.
Coadiuvato dal fedele Peter Walsh, al lavoro anche nei due precedenti episodi, in Bish Bosch riesce a convincere maggiormente quando non cerca l’accostamento visionario fine a se stesso, ma quando riporta alla mente dell’ascoltatore orrori storici realmente accaduti e quando fugge tentazioni. Tutto ciò anche in ragione del fatto che le soluzioni sonore adottate tendono ora a mostrare la corda, sia sotto il profilo della struttura dei pezzi, con la reiterata alternanza di dinamiche agli estremi opposti, sia sotto quello della gamma timbrica, debole soprattutto nel già sentito utilizzo delle dissonanze orchestrali e in una costrizione della voce, per quanto essa sia ancora brillantissima, in incisi che sembrano sempre uguali.
Ma il fatto che più riusciti risultino i momenti grotteschi e bizzarri di quelli orrifici insinua il dubbio che questo capitolo finale (?) altro non costituisca che una sorta di parodia di questo genere di “avanguardia rock” inventata da Walker stesso e che a prevalere sia alla fine la risata nera piuttosto che l’atterrimento, lo sguardo sardonico dell’emerito professore di cosmologia piuttosto che l’insopprimibile tensione emotiva dell’artista.
Un disco, allora, concettualmente impeccabile e, pertanto, a tratti freddo come un teorema nel quale si perde il gusto dell’intuizione e del guizzo del genio, ma forse, proprio per questo, adeguato all’aridità dell’era contemporanea, che sembra aver già attraversato tutti gli orrori e le miserie immaginabili.