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Six Organs of Admittance: l’intervista @ indie-eye.it – Roma 6 Maggio 2012

Per la terza volta Motelsalieri torna ad ospitare un concerto-evento acustico che profuma d’eccezione, confermandosi un microcosmo suggestivo e finanche surreale per appassionati e cultori, una cornice elegante per performance improntate tanto all’intimismo quanto alla sperimentazione. Dopo lo straordinario cabaret noir di Baby Dee dello scorso Novembre, una domenica mattina di Febbraio si esibiva l’outsider per antonomasia Jandek, presentando alla consueta trentina di convenuti il suo primo live italiano di sempre e una mostra fotografica con alcune delle sue leggendarie copertine. “Pezzi” scritti in una manciata di giorni, ancora freschi di taccuino, una voce sbilenca e fosca, un folk-blues trascendente per accordi liberi: a pochi metri di distanza, nel chiuso del suggestivo stanzino lievemente seminterrato, il mistero dell’autore texano finiva per ispessirsi, tra un lungo silenzio e l’altro, nell’austerità della sua figura ossuta e tra le pieghe di una penombra noncurante del mezzogiorno. In un piovoso pomeriggio romano giunge ora Ben Chasny a ridisegnare la sua versione dell’occasio. Dalle allucinazioni imprendibili di Jandek si passa al virtuoso fingerpicking del chitarrista californiano, anima e corpo del progetto Six Organs of Admittance ormai dal lontano 1998 e membro-collaboratore di una pletora di artisti (Comets on Fire, Rangda, Badgerlore, August Born, Basalt Fingers, Current 93 tra gli altri) con cui non ha mai smesso di complicare la matrice psych-folk della sua musica. Chitarra e voce (on occasion), ça va sans dire. Propone un plug in nella bocca semichiusa di una statua equestre al centro della sala e poi si scusa per la battuta: ogni sferzata elettrica suonerebbe comunque sacrilega calata nell’atmosfera presente. Agli squarci più psichedelici e alle escursioni strumentali più perigliose (spicca in coda Above a Desert I’ve Never Seen) si affianca con disinvoltura quel formato “canzone”, che ci dirà, in un modo o nell’altro deve pur entrare nei giochi. Così c’è spazio per la composta dolcezza di un nuovo brano e per una cover di Roll The Stone di Kevin Paul Godfrey aka Epic Soundtracks, fratello di Nikki Sudden, uno dei guru di Chasny. Un pubblico di pochi risponde con ovazioni che sembrano moltiplicarsi di volta in volta.

Qualche minuto dopo la performance Ben mi concede volentieri una piccola intervista. Tra le stesse mura azzurrognole i suoi racconti, le sue risate rincorrono la propria eco e i rapidi cambi d’argomento. Dalla sua sete d’ontologia a colonne sonore… imprevedibili.

 

Un ringraziamento a Fabio Quaranta e Diego Manfreda e a Fred Somsen di Drag City per averci fornito il materiale fotografico

Il concerto di oggi è il tuo ritorno on the road come Six Organs of Admittance…

Esattamente. Sono molto contento di aver ricominciato da questo posto meraviglioso.

Ieri sera invece ti sei esibito a Bologna con gli italiani Starfuckers. Ci racconti come è andata e come li hai conosciuti?

Straordinario, fantastico, eravamo tutti molto carichi. Penso cercheremo di suonare di nuovo insieme in futuro. Se tutto va bene penso tornerò a suonare con loro verso Novembre, dobbiamo ancora stabilire i dettagli. Ascolto la loro musica da quindici anni ormai, da quando ho avuto per la prima volta tra le mani una copia di Sinistri [Underground Records, 1994]. Ogni volta che vengo in Italia e qualcuno mi chiede se conosco qualche gruppo italiano dico subito “Starfuckers!”. Dopo qualche tempo un mio amico promoter mi ha detto di essere in contatto con loro e dopo averne parlato per un anno ci è stato possibile dare il via alla collaborazione.

Sul fronte collaborazioni non ti sei mai fermato un attimo, partecipando a progetti molto diversi tra loro. Penso negli ultimi anni alle tonanti improvvisazioni dei Rangda e all’acoustic folk più convenzionale dei 200 Years, con Elisa Ambrogio. La discografia SOOA, pur essendo molto nutrita, mantiene una certa omogeneità e non sembra aver inglobato molti di questi sbalzi.

È vero. Io ho la necessità di buttarmi in mille progetti perché se Six Organs of Admittance inglobasse anche il mio animo più rock o il folk più limpido e semplice sulla linea di 200 Years, non riesco ad immaginare quanti dischi di Six Organs ci sarebbero nel mondo [Ride]! Credo ne farei uscire almeno dieci l’anno e nessuno se li filerebbe! Inoltre adoro collaborare con altri musicisti e non solo per il contatto umano, ma perché finisco per suonare la chitarra in modo molto diverso ogni volta. Ieri sera ad esempio: non ho mai suonato come ieri con gli Starfuckers, davvero incredibile. Hanno tirato fuori un lato di me che non conoscevo e adesso l’ho inglobato, per l’appunto. In un certo senso è un discorso egoista, se ci pensi. Ma è il motivo per cui mi piace collaborare appena posso.

Nel 2011 oltre ad Asleep On The Floodplain è uscito Maria Kapel. Con questa uscita in vinile hai resuscitato la tua etichetta Pavilion. Era ferma da una decina di anni, mi sbaglio?

Eh sì, undici o dodici anni, incredibile! Nel ’99 sulla stessa etichetta è uscito un disco dei Badgerlore, un progetto in collaborazione con Rob Fisk, fondatore dei Deerhoof; non sono usciti altri artisti su Pavilion. E ti dirò di più, qualora mi venisse in mente di pubblicare altro penso proprio che cambierò il nome dell’etichetta: un giorno per caso ho messo “Pavilion” su Google e ho scoperto che esiste già un’etichetta inglese mastodontica con lo stesso nome! Cambierò nome senza dubbio.

Maria Kapel è stato un po’ messo in ombra dal predecessore. Ci racconti la genesi di questo disco?

Questo disco è il frutto di un progetto speciale nato durante un mio soggiorno nel Sud dell’Olanda. Lì alcuni luoghi sono disseminati di piccole cappelle dedicate alla Vergine Maria. Sono davvero ovunque, specie sul ciglio della strada. Ho viaggiato per due settimane alla ricerca di queste cappelle e ho composto dei pezzi dedicati a queste “nicchie”, che poi ho suonato dal vivo nei Paesi Bassi. I pezzi live sul disco sono tratti da quelle performance. Mi incantavo di fronte a quelle cappelle, è particolare che siano diffuse solo nella parte meridionale del paese.

Le atmosfere evocate dalla tua scrittura hanno sempre in qualche modo richiamato una dimensione spirituale…

Sì. Tuttavia più che la spiritualità è l’ontologia ad interessarmi. Quando ero più giovane e non avevo ancora letto i grandi filosofi attingevo all’ontologia attraverso la religione, ma non parlerei mai di religione in senso stretto a proposito dei miei lavori. Crescendo ho trovato modi più diretti di interfacciarmi con argomenti di tipo ontologico. Questo è stato il processo che mi ha avvicinato sulle prime alla religione. Ciò che a me interessa è l’essere e il non-essere… e ovviamente tutto quello che ci sta in mezzo.

E nel ricercare risposte sull’essere hai sempre gettato un occhio verso l’Oriente. In passato hai citato molte fonti di ispirazione orientali, sia letterarie che musicali.

Sì. E le influenze non sono mai pacifiche. Da Edward Said in avanti impari ad attingere e a lasciarti affascinare dall’Oriente in maniera costruttiva, mai “orientalistica”… è qualcosa con cui ti ritrovi anche a “combattere”, se capisci cosa intendo. Una mia grande influenza in questo senso è stato il filosofo Henry Corbin, che si è dedicato tra le altre cose a questi argomenti.

Passiamo dall’ontologia alla pornografia diretti.

[Ride]

Come sei finito a mettere un piede nel mondo del porno gay?

Oddio! Sei la prima persona a chiedermi di questa cosa, fantastico! È un progetto di cui non ho MAI parlato con nessuno, non perché me ne vergogni o altro, ma perché volevo che fosse la gente a scovarlo! Volevo che le persone incappassero nella cosa e pensassero: “WHAT THE …!”. Dunque, ho fatto le musiche per un film hardcore, di fatto se compri il DVD le musiche sono mie, dei Six Organs. L’attore, scrittore e regista del film Logan McCree mi ha chiesto di occuparmi delle musiche. L’ho incontrato per caso dopo un concerto dei Six Organs e abbiamo chiacchierato un sacco, quasi per un’ora. A un certo punto gli ho chiesto: “Che fai nella vita?” e così ho scoperto di che si occupava. Ho accettato non appena mi ha chiesto di comporre le musiche per il suo film. È un fan… pensa che nel film ha una maglietta dei Six Organs! C’è una brevissima scena di lui con un mio cd in mano, assurdo!

Hai visto il film…

[Ride] Qui viene la parte divertente! Quando ancora il film non era stato fatto Logan mentre scriveva le scene mi ha chiesto di comporre pezzi interamente acustici, il che mi sembrava perfetto per un film porno gay. Sì, chitarra acustica. Ma mentre leggevo i dialoghi non sembrava affatto porno, mi sembrava molto aggraziato, softcore, per dire. Quando poi ho spedito tutta la musica non ci siamo più sentiti e non mi è arrivata una copia del DVD, per cui mi son messo a cercarlo online per dare un’occhiata e ho chiuso subito tutto e mi son detto: “Non è softcore manco per niente!”. Il mio amico Fabrizio [Modonese Palumbo, di (r), Larsen, XXL, All Scars Orchestra e Blind Cave Salamander] mi ha proposto di suonare durante uno show di Logan quando ancora non avevo visto il film, quindi mi è stato chiesto di annotare la parti in cui la musica doveva alternarsi ai dialoghi eccetera: sono ben due DVD e mi son detto: “Oddio, devo suonare per uno show porno di due ore!”. È stato uno shock, ma anche molto divertente. Una maratona, per altro. Alcune scene duravano 40 minuti, che è quasi la durata di un set normale [ride].

Tornando a territori più… “tuoi”. In alcune interviste hai detto che la critica ha un po’ abusato del nome di John Fahey nel parlare dei tuoi dischi, delle tue abilità nel fingerpicking e delle tue influenze…

Fahey mi piace molto. Il motivo per cui mi dissocio sempre da questo paragone non è ostilità o spirito di contraddizione, ma un modo di scoraggiare chi conosce solo Fahey in materia di chitarristi. Vorrei che si ascoltasse molto molto altro.

Non è un caso che tu sia co-responsabile della riscoperta di Gary Higgins e delle sue ristampe per Drag City.

Tra l’altro! Ci sono così tanti chitarristi valevoli cui far riferimento. Fahey, ci tengo a precisare, è stato per me estremamente importante, per quello che ha rappresentato con la sua vita, la sua esperienza, il modo in cui ha perseguito i suoi obiettivi fino alla fine, in favore della musica. Non credo ci siano molti musicisti disposti a vivere in macchina per continuare a fare quello che vogliono fare. Secondo me poche persone capiscono davvero quanto e cosa ha rappresentato con la sua musica. Molti altri sono per me punti di riferimento: Peter Walker, ad esempio. Hanno ristampato il suo disco proprio di recente, qualcuno sapeva che ero un suo grande fan e mi sono così occupato delle liner notes. Non so bene cosa voglia dire, ma si dice che fosse “il guru musicale di Timothy Leary”. A un certo punto della sua carriera suonava prettamente in stile che definirei hippy raga. Ma vorrei anche dire che ci sono molte nuove leve fantastiche. William Tyler, un ragazzo di Nashville, è davvero fenomenale, costruisce delle melodie meravigliose nei suoi pezzi. Non sto dicendo che io sia bravo nel farlo, ma quando ascolto musica acustica preferisco che ci sia, come dire, “un pezzo” dentro o al contrario “nessun pezzo” tout court, uno sperimentalismo più visionario. Visionario sì.

Oggi abbiamo sentito un pezzo del nuovo disco. Qualche dettaglio sul nuovo album?

Il nuovo disco si chiamerà Ascent. La canzone che ho suonato oggi è l’unico pezzo acustico del disco, che è stato registrato con Tim Green lo scorso Gennaio in California. Suoniamo io e tutti i Comets on Fire. Mi ha fatto molto piacere ritrovarsi con tutti i ragazzi, è stata una sorta di reunion, non ci trovavamo nella stessa stanza da almeno quattro anni. Ognuno di noi è come se recitasse una parte quando siamo insieme. Io in genere sono quello ombroso e irritabile… è stato molto divertente.

Ombroso e irritabile. Una volta hai dichiarato di essere un completo nichilista.

Io? [Ride]. No, no! Non si può credere a nulla di quello che dico, neanche a tutto quello che ho detto in quest’intervista. Ethan [Miller, dei Comets on Fire] mi prende sempre in giro dicendo che sono un nichilista, ma in verità, nel profondo sono l’opposto di un nichilista.

Alla faccia di chi vede un perenne senso dell’apocalisse nella tua musica da più di dieci anni.

Nessuna apocalisse. Combattere l’apocalisse, quello di sicuro.

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Six Organs of Admittance

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Giuseppe Zevolli
Giuseppe Zevolli
Nato a Bergamo, Giuseppe si trasferisce a Roma, dove inizia a scrivere di musica per Indie-Eye. Vive a Londra dove si divide tra giornalismo ed accademia.

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